mercoledì 28 settembre 2016

Robert Fulghum, I Leamed in Kindergarten. Tutto quello che davvero mi serve sapere su come vivere e cosa fare e come comportarmi l'ho imparato all'asilo. La saggezza non era in cima alla montagna del dottorato, ma nel mucchio di sabbia del giardino. Queste le cose che ho imparato: Dividi tutto; non barare; non picchiare la gente; rimetti le cose dove le hai trovate; pulisci quello che sporchi; non prendere cose che non sono tue; chiedi scusa quando fai male a qualcuno; lavati le mani prima di mangiare; tira l'acqua in bagno; i biscotti caldi e il latte fanno bene; vivi una vita equilibrata: ogni giorno impara un po', pensa un po', disegna, dipingi, canta, danza, gioca e lavora un po'; fai un pisolino tutti i pomeriggi. Quando esci nel traffico, stai ben attento, tieni la mano di qualcuno e state vicini. Cerca di essere conscio del meraviglioso.




Tutto quello che davvero mi serve sapere su come vivere e cosa fare e come comportarmi l'ho imparato all'asilo. La saggezza non era in cima alla montagna del dottorato, ma nel mucchio di sabbia del giardino. Queste le cose che ho imparato:
Dividi tutto; non barare; non picchiare la gente; rimetti le cose dove le hai trovate; pulisci quello che sporchi; non prendere cose che non sono tue; chiedi scusa quando fai male a qualcuno; lavati le mani prima di mangiare; tira l'acqua in bagno; i biscotti caldi e il latte fanno bene; vivi una vita equilibrata: ogni giorno impara un po', pensa un po', disegna, dipingi, canta, danza, gioca e lavora un po'; fai un pisolino tutti i pomeriggi. Quando esci nel traffico, stai ben attento, tieni la mano di qualcuno e state vicini. Cerca di essere conscio del meraviglioso.
Robert Fulghum, All I Need to Know I Leamed in Kindergarten, HarperCollins, 1990


François Villon. La Ballata degli Impiccati. Poeta raffinatissimo e brutale. Ladro, fomentatore di risse da taverna e assassino di un prete. François Villon, nato a Parigi nel 1431, e morto non si sa n‚ dove n‚ quando, è rimasto incatenato per secoli alla sua fama, fama ambigua quant'altra mai, di poeta maledetto.

Ballata delle donne del tempo passato
Ditemi dove, in quale paese
è Flora, la bella romana,
Alcibiade e Taide,
sua cugina germana,

Eco parlante quando scorre una voce
sul velo di un fiume o di uno stagno,
Eco, bellezza molto più che umana?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Dov’è la sapiente Eloisa
per cui Abelardo fu castrato
e chiuso in convento a San Dionigi?
Per amore subì tale destino.

Ditemi ancora, dov’è la regina
che ordinò che Buridano fosse gettato
nella Senna in un sacco e affogato?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

E lei come il giglio, Bianca la regina,
che cantava con voce di sirena,
Berta dal grande piede, Alice, Beatrice,
Erembourg signora del Maine,
la buona Giovanna di Lorena,
che gli inglesi bruciarono a Rouan,
dove sono, dove, Vergine suprema?
Ma dove, le nevi dell’anno passato?

Principe, è inutile cercare con affanno
dove sono ora, nel corso dell’anno,
se non vuoi che riprenda il motivo andato,
dove, le nevi dell’anno passato?

François Villon


(Traduzione di Roberto Mussapi)


Ballata controtempo
La bellezza che svanisce è un emblema della condizione umana.
Così François Villon, nominando le belle donne del tempo andato, si contrappone al nulla della morte

La famosa ballata delle donne del tempo andato, o della bellezza femminile, la più bella, che svanisce. Pochi poeti hanno saputo farci tremare con la potenza dei nomi: le donne del bel tempo andato, i signori, i grandi personaggi storici che aleggiano sulla bolgia di Villon (Parigi 1431-1463) come aure della bellezza passata, sono palpitanti emblemi della condizione umana nel suo essere nome, volto nominato a tenerlo in vita. E Villon nomina, chiama tanti nomi, di gente passata e lontana, per adunarli accanto a sé e ai suoi compagni di taverna e di bolgia, per averli accanto e salvarli dalla distruzione del tempo, per cantare i loro nomi nella nostra memoria, per collegare nel ricordo i vivi ai morti, per contrapporre al nulla della morte la pronuncia del nome, l’agonistica e infine vincitrice compassione della poesia. Che è la forza resistente al divenire del tempo, che tutti porta via. Il più grande poeta di lingua francese, il sommo Villon, le donne che svanirono, e, per la forza della poesia, vivono ancora.
http://www.succedeoggi.it/2015/03/ballata-controtempo/




Ballade des dames du temps jadis
Questa celebre ballata, indicata nel manoscritto semplicemente come Ballade, è la prima che interrompe l’impianto narrativo del Testamento e riprende, con le due successive, il motivo dell’Ubi sunt?, dello scorrere inesorabile del tempo che tutto cancella, ampiamente diffuso nella cultura medievale. Fu il poeta ed editore Clément Marot ad attribuirle il titolo che conosciamo:
la ballata presenta infatti una galleria di donne reali e immaginarie dell’antichità classica e cristiana: cortigiane, ninfe, regine ed eroine della storia, della mitologia e delle chansons de geste, descritte la poeta insieme a pochi, ma essenziali elementi che riportano alla mente le loro storie. Donne citate non soltanto come modelli di virtù, ma anche come esempi di effimera bellezza e seduzione e, come le nevi dell’anno passato, ormai scomparse.
Tra di esse, Flora, la bella cortigiana amata da Pompeo;
Taide, la bellissima e dissoluta amante di Alessandro Magno;
Eco, la ninfa innamorata di Narciso;
la triste Eloisa e la regina Bianca di Castiglia.
Unica eccezione in questa rassegna tutta al femminile è Alcibiade, cugino di Pericle, tanto famoso per la sua esemplare bellezza da essere trasformato in una donna dai traduttori di Boezio, il quale lo aveva citato in De consolatione Philosophiæ.
Giovanna d’Arco,
"la bonne Lorraine /
Qu’Engloys brulerent a Rouen",
è forse l’esempio più significativo del tema della fugacità del tempo,
della gloria e della vita umana:
di lei, più nulla rimane, nemmeno il suo corpo, 
distrutto dal fuoco, dissolto come la neve al calore del sole.
La domanda, “ma dove sono le nevi dell’anno passato? 
che ricorre al termine di ogni strofa e che Villon rivolge adesso alla Vergine Maria,
per contro l’unica donna assunta in cielo nella sua integrità corporale, resta senza risposta.
Nemmeno i potenti, evocati con la quartina conclusiva nella figura di un principe che fa da interlocutore al poeta, sono in grado di rispondere, poiché anche loro nulla possono contro la caducità della vita terrena.

Autore: François Villon (1431- dopo il 1463)

Datazione: 1461
http://www.dislocazioni-transnazionali.it/bd/il-mito-di-giovanna-d-arco/emballade-des-dames-du-temps-jadis-em?id=1&ids=7


Fabrizio de Andrè - Ballata dell'Amore Cieco o della Vanità.
Bellissima Canzone di Fabrizio de Andrè, tratta dal Disco "Canzoni" del 1974.
La prima versione della stessa era stata pubblicata nel disco "Tutto Fabrizio de Andrè" nel 1966.

Un uomo onesto, un uomo probo,
tralalalalla tralallaleru
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.

Gli disse portami domani,
tralalalalla tralallaleru
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.

Lui dalla madre andò e l'uccise,
tralalalalla tralallaleru
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Non era il cuore, non era il cuore,
tralalalalla tralallaleru
non le bastava quell'orrore,
voleva un'altra prova del suo cieco amore.

Gli disse amor se mi vuoi bene,
tralalalalla tralallaleru
gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene.

Le vene ai polsi lui si tagliò,
tralalalalla tralallaleru
e come il sangue ne sgorgò,
correndo come un pazzo da lei tornò.

Gli disse lei ridendo forte,
tralalalalla tralallaleru
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.

E mentre il sangue lento usciva,
e ormai cambiava il suo colore,
la vanità fredda gioiva,
un uomo s'era ucciso per il suo amore.

Fuori soffiava dolce il vento
tralalalalla tralallaleru
ma lei fu presa da sgomento,
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato,
quando a lei niente era restato,
non il suo amore, non il suo bene,

ma solo il sangue secco delle sue vene.
https://youtu.be/hEsMZfYGqIM




La Ballata degli Impiccati.
Tutti morimmo a stento 
ingoiando l'ultima voce 
tirando calci al vento 
vedemmo sfumare la luce. 

L'urlo travolse il sole 
l'aria divenne stretta 
cristalli di parole 
l'ultima bestemmia detta. 

Prima che fosse finita 
ricordammo a chi vive ancora 
che il prezzo fu la vita 
per il male fatto in un'ora. 

Poi scivolammo nel gelo 
di una morte senza abbandono 
recitando l'antico credo 
di chi muore senza perdono. 

Chi derise la nostra sconfitta 
e l'estrema vergogna ed il modo 
soffocato da identica stretta 
impari a conoscere il nodo. 

Chi la terra ci sparse sull'ossa 
e riprese tranquillo il cammino 
giunga anch'egli stravolto alla fossa 
con la nebbia del primo mattino. 

La donna che celò in un sorriso 
il disagio di darci memoria 
ritrovi ogni notte sul viso 
un insulto del tempo e una scoria. 

Coltiviamo per tutti un rancore 
che ha l'odore del sangue rappreso 
ciò che allora chiamammo dolore 
è soltanto un discorso sospeso.

https://youtu.be/i8HuD5NC7mg

La canzone di De André in cui più evidente appare l' influenza di Villon è, come già detto, La Ballata degli impiccati (titolo che richiama chiaramente la ballade des pendus), inclusa nell' album Tutti morimmo a stento del 1968. 
"La ballata occupa una posizione centrale nell'album di cui fa parte dal punto di vista contenutistico: il primo verso di questa canzone, infatti, dà il titolo al disco. L'inizio è la cruda descrizione dei momenti finali degli impiccati, che muoiono con in gola l'ultima bestemmia, ma il messaggio che vogliono lasciare va al di là della loro condizione: è l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male; nessuno è colpevole, nessuno è innocente, nessuno ha il diritto di 
giudicare un proprio simile. Nella canzone, gli impiccati augurano a chi li ha derisi di morire nel loro stesso modo; a chi li ha dimenticati, di morire ad un passo dalla meta; infine ad una donna che si è vergognata del loro ricordo, l'augurio è di perdere al più presto la bellezza e di essere sfigurata, senza appello, dal tempo. Il finale è una minaccia per chi vive ancora: la nostra morte non è la fine, ma soltanto una sospensione che proprio voi riprenderete."
(Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva)

La Ballata degli Impiccati, dotata dell'inconfondibile stile del cantautore genovese fatto di versi scarni, ruvidi e sarcastici, dipinge con tinte cupe e macabre, il rancore e la rabbia devastante di chi a causa delle proprie debolezze morali, o per il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole si trova ad essere condannato all' impiccagione.
Gli impiccati, anonimi, muoiono nel momento in cui cantano, e cantando nonriescono a perdonare, ma soltanto a lanciare invettive, contro il mondo intero..
Gli impiccati si rivolgono a tutta l' umanità invitando ad una riflessione sulla vita, proposta attraverso un martellamento ritmico tipico della marcia funebre, una sorta di «dansa macabra» finalizzata ad enfatizzare il senso di caducità della vita e l' ineluttabilità di una morte che viene rappresentata come uno scheletro orrendo.
Esaminando i testi, risulta abbastanza evidente come sia per de De André che per Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma rappresenta piuttosto il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia. 
Netta è la correlazione e i punti di contatto tra le due opere.

"Molti sono i fili che la legano alla Ballade des pendus di Villon, primo fra tutti il fatto che l'impiccato non è più il colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte. Comune, nei testi di Villon e De André, è la descrizione di particolari aspri, dei segni di un'agonia crudele, e l'invito a non sentirsi estranei alla sorte degli impiccati, perché, a ben guardare, c'è poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, e chi si crede incontaminato dal male, al punto da proseguire "tranquillo il cammino", commette anche lui un peccato contro l'uomo".
Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo “Edizioni Associate, Roma 1999

 


François Villon, Poesie, pp. 119, Feltrinelli
Poeta raffinatissimo e brutale. Ladro, fomentatore di risse da taverna e assassino di un prete. François Villon, nato a Parigi nel 1431, e morto non si sa n‚ dove n‚ quando, è rimasto incatenato per secoli alla sua fama, fama ambigua quant'altra mai, di poeta maledetto. Luigi De Nardis, nell'acuto ed esaustivo saggio introduttivo di questa antologia pubblicata nei classici economici di Feltrinelli, risale all'origine delle leggende fiorite intorno all'autore della "Ballata degli impiccati" e, dopo averlo restituito alla sua vita e al suo secolo, lo definisce senza esitazioni "il più grande poeta lirico di Francia". A fare da contraltare al serio e filologico saggio introduttivo, la prefazione di Fabrizio De André. Una breve lettera che si rivolge direttamente al poeta "mascalzone" per raccontargli che la desolata Parigi del 1456 non era poi così diversa, nella sostanza, dalle nostre tecnologiche, iridescenti metropoli. Quanto a Villon, poi, non resta che immergersi nei beffardi "Lais" giovanili, nel più maturo e vario "Testament" e, infine, nelle splendide cupe e disperate "Poésies diverses", per passare, nel giro di poche pagine, dal bordello della "grosse Margot" al convento in cui la vecchia madre del poeta ammira "arpe e liuti in cielo pitturati/ e un inferno dove bollono i dannati".

(C. Bongiovanni, L'Indice 1996, n. 7)
‎Mario De Ronzi‎ a Leggo i classici di letteratura 


La ballata degli impiccati (Ballade des pendus), originariamente chiamata L'epitaffio di Villon (L'épitaphe Villon) e conosciuta anche come Fratelli umani (Frères humains) è un'opera del poeta francese François Villon, pubblicata a stampa per la prima volta nel 1489.
La poesia è un appello alla carità cristiana, valore molto rispettato nel Medioevo:

Perché, se pietà di noi poveri avete,
Dio avrà piuttosto di voi mercé,
perché se voi avete pietà di noi,
Dio avrà più presto pietà anche di voi

Essa presenta un'originalità profonda nella sua enunciazione: sono i morti a rivolgersi ai vivi, in un appello alla compassione e alla carità cristiana, esaltato dalla descrizione macabra. Questo effetto di sorpresa è tuttavia smorzato dal titolo moderno. Il primo verso «Freres humains, qui après nous vivez», conserva difatti ancora oggi un forte potere evocativo ed emotivo: la voce degli impiccati immaginata da Villon trascende la barriera del tempo e della morte.

Villon, che attende di essere condannato all'impiccagione, si rivolge ai posteri per sollecitare la pietà dei passanti ed esprimere dei desideri, sollecitare la nostra indulgenza, descrivere la loro condizione di vita, rivolgere una preghiera a Gesù. In second'ordine si può percepire in questa ballata un appello dell'autore alla pietà del re, giacché quest'ultimo lo ha messo in prigione.

La redenzione è al centro della ballata. Villon riconosce di essersi preoccupato troppo del suo essere di carne a discapito della sua spiritualità. Questa constatazione è rafforzata dalla cruda e insopportabile descrizione dei corpi marcescenti (che fu probabilmente ispirata dal macabro spettacolo del «carnaio degli innocenti») che produce un forte contrasto con l'evocazione dei temi religiosi. Gli impiccati esortano in primo luogo i passanti a pregare per loro; poi, nel corso dell'appello, la preghiera si generalizza verso tutti gli esseri umani.


Fratelli umani che dopo noi vivete,
non abbiate con noi i cuori induriti,
perché se avete pietà di noi, poveri,
Dio avrà più presto pietà di voi.
Voi ci vedete qui, in cinque, sei, appesi:
quanto alla nostra carne, troppo nutrita,
dopo molto tempo è divorata e putrida,
fino all'osso, siam polvere e cenere.
Della nostra sventura, nessun si rallegri,
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

Se noi vi chiamiamo fratelli, non dovete
averne sdegno, anche se siamo uccisi
dalla giustizia. Tuttavia voi sapete
che animo turbolento hanno gli uomini.
Perdonateci, perché siamo trapassati,
verso il figlio della Vergine Maria,
ché la sua grazia non ci sia arida,
e ci preservi dalle fiamme infernali.
Siamo morti, nessuno ci tormenti,
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

La pioggia ci ha lavati abbastanza
e il sole ci ha anneriti e seccati;
Gazze, corvi ci hanno gli occhi scavati,
e strappata la barba e le sopracciglia.
Mai un solo istante restiamo seduti;
di qua e di là, come fa il vento soffiando,
a suo agio, senza tregua siam sballottati
più becchettati dagli uccelli che ditali da cucito
Non siate della nostra confraternita
ma pregate Dio che tutti noi assolva!

Principe Gesù che hai potere su tutti,
fa che l'inferno in potere non ci abbia:
non avendo nulla a che spartire con lui.
Uomini, adesso, non derideteci,
ma pregate Dio che tutti noi assolva.


Frères humains qui apres nous vivez
N'ayez les cuers contre nous endurciz,
Car, se pitié de nous pauvres avez,
Dieu en aura plus tost de vous merciz.
Vous nous voyez cy attachez cinq, six
Quant de la chair, que trop avons nourrie,
Elle est pieça devoree et pourrie,
Et nous les os, devenons cendre et pouldre.
De nostre mal personne ne s'en rie:
Mais priez Dieu que tous nous veuille absouldre!

Se frères vous clamons, pas n'en devez
Avoir desdain, quoy que fusmes occiz
Par justice. Toutesfois, vous savez
Que tous hommes n'ont pas le sens rassiz;
Excusez nous, puis que sommes transis,
Envers le filz de la Vierge Marie,
Que sa grâce ne soit pour nous tarie,
Nous préservant de l'infernale fouldre.
Nous sommes mors, ame ne nous harie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre!

La pluye nous a débuez et lavez,
Et le soleil desséchez et noirciz:
Pies, corbeaulx nous ont les yeulx cavez
Et arraché la barbe et les sourciz.
Jamais nul temps nous ne sommes assis;
Puis ça, puis la, comme le vent varie,
A son plaisir sans cesser nous charie,
Plus becquetez d'oiseaulx que dez à couldre.
Ne soyez donc de nostre confrarie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre!

Prince Jhesus, qui sur tous a maistrie,
Garde qu'Enfer n'ait de nous seigneurie:
A luy n'avons que faire ne que souldre.
Hommes, icy n'a point de mocquerie;
Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre.

(Trascrizione del testo tratta dal manuale Lagarde et Michard)

https://it.wikipedia.org/wiki/La_ballata_degli_impiccati




La tipica drammaticità che contraddistingue il modo di rappresentare e cantare la vita di De André ci porta ad accostarlo ad un grande poeta del Quattrocento francese, François Villon, la cui produzione è dominata da un forte senso di caducità e di precarietà nei confronti dell’ esistenza. Una propensione per la cultura medievale, quella di De André che ricorre soprattutto nelle composizioni giovanili.

Numerosi sono i punti di contatto della poetica di Villon con quella del cantautore genovese: Villon come De André canta i disadattati, i marginali, condannati a un destino crudele, non solo ad una prematura morte terrena ma soprattutto alla morte dell’animo e ad una lotta continua verso il sentire comune ed il pensiero unico, facendone dei ribelli nei confronti della maggioranza.

Villon, prende le parti dei diseredati, vittime della debolezza della propria natura, della cattiva sorte, della malvagità umana e dell’ingiustizia sociale. De andré riconoscerà ufficialmente in Villon“un poeta della carità, per lo scandalo delle passioni sfrenate, per le risate scomposte a schernire inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e toccano il cuore e la mente di chi legge
(F. De André – Prefazione a F. Villon, Poesie, Feltrinelli , Milano 1996 )

La poesia di Villon rappresenta un nodo di profonde contraddizioni. Più volte, nel corso della sua opera manifesta la sua fede profonda, tuttavia conduce una vita da malfattore e delinquente: ruba, ferisce, uccide. Le sue cattive frequentazioni lo condussero a vivere spalla a spalla con gli strati più bassi della società ma al tempo stesso frequentava gli ambienti universitari.
Ha un culto toccante e sincero verso Notre Dame a cui dedicherà una stupenda ballata ma ciò non gli impedirà di frequentare prostitute o ambienti malfamati. E’ proprio in virtù di questa dicotomia e di queste grandi contraddizioni che segnano la personalità del poeta medievale che Villon si distingue per la sua grande capacità di passare dal più raffinato ed elevato lirismo al realismo più crudo. Candido e tragico nello stesso tempo, sensuale e devoto.
Pressoché sconosciuto al tempo in cui visse, Villon ebbe notorietà solo a partire dal XVI secolo quando le sue opere furono recuperate e pubblicate da Clément Marot che ha sottolineato come la vita di François Villon sia piena di zone d’ ombra e mistero, e le sole tracce biografiche certe relativamente alla sua vita adulta sono di origine giudiziaria; ciò da forza e vigore all’ immagine leggendaria di poeta malfattore che gli è stata attribuita dalla fine del Medioevo.

Ecco cosa fu François Villon: ladro, assassino e quanto peggio ancora. Tuttavia è lui l’uomo, a cui é legata la poesia più profondamente penetrante del XV secolo : non c’è alcun dubbio, questo malfattore fu un grandissimo poeta.
(Gustave Lanson - Histoire de la Littérature française - 1894 )

Villon rappresenta il primo grande poeta moderno, ma è al tempo stesso l’ ultimo grande rappresentante della poesia Medievale. Fu capace di realizzare una poesia profondamente personale ed intimista, espressione sincera dei propri sentimenti.
La sua opera rispecchia la sua vita, fatta di contrasti violenti, non nasconde nulla nemmeno l’attrazione verso una vita dissipata che fa di lui un poeta maledetto e avvolto dalla leggenda.
Nonostante questa sua cattiva condotta, il suo animo ed il suo spirito non perdono quell’ ingenuità e quella freschezza che ne caratterizzano la sua poesia.
Villon veste le parole di forme commoventi e toccanti per esprimere la fede religiosa che ha conservato, l’ amore per sua madre, la sua riconoscenza verso tutti quelli che lo hanno stimato, i suoi rimpianti per aver sprecato la sua giovinezza.
Non si può dire che Villon abbia introdotto forme o temi nuovi, il testamento dominato dalla parodia, infatti, esisteva già da tempo come anche la riflessione amara e lucida sul tema della morte, sul destino cieco e beffardo, sull’ ultimo saluto dato alle anime, erano topoi ben conosciuti nel Medioevo; la forza di Villon consiste nel non aver affrontato queste tematiche come delle scelte obbligate e convenzionali ma averle rivisitate come vere e proprie esperienze personali. Villon dipinge un affresco dominato dalla caducità e dall’insensatezza dell’esistenza, spazzando via le falsità e le troppe convenzioni che avevano caratterizzato l’epoca e la cultura medievale: l’immagine dell’amante martire tipico delle regole dell’amor cortese era diametralmente opposta alla sua visione
dell’amore imperniata sul piacere.

Le immagini, le metafore, la simbologia e la macabra lucidità di Villon svolgono dunque un importante ruolo demistificatore e capace di desacralizzare tutta una gamma di valori e costumi.
Alla poetica ed irreale campagna dei pastori e della perfezione bucolica che popolano la poesia del tempo, preferisce Parigi che rievoca spesso in modo alquanto pittoresco. Il suo talento di caricaturista lo spinge spesso ad enfatizzare ed ingigantire i difetti umani, l’ autentica condizione dell’uomo viene dipinta in tutta la sua cruda e orrenda realtà attraverso la descrizione dell’orrore della decrepitezza dei corpi, la violenza e la bassezza dei loro appetiti carnali.
Una poesia vera che si distacca inesorabilmente dalle dolci menzogne della tradizione.
Ma il vero fattore innovativo della poesia di Villon risiede proprio nella personalità dell’autore, dotata di innumerevoli sfumature, capace di emozionare e di intrigare. Tuttavia non è facile carpire la vera essenza del poeta Villon per la sua caparbia abilità nel nasconderla e camuffarla sotto volti e maschere ogni volta diverse; dall’amante respinto ed infelice al sensuale amico delle meretrici, dal figlio tenero e sensibile che compone per sua madre l’ affascinante Ballade pour prier Notre-Dame al crudele peccatore che lamenta la sua eccessiva malvagità.
La celebre espressione del poeta cinquecentesco "Je ris en pleurs", riassume e sottolinea la dicotomia e la dualità profonda d' una coscienza che risulta dominata dalle due facce del poeta più spesso individuate nel corso della sua opera: la faccia triste dell’ uomo afflitto dal rimpianto e dall’ amarezza e quella dominata da una risata cinica ed atroce, lucida e spietata.L'opera di François Villon ha conosciuto un successo immediato.

Le sedici edizioni che si sono succedute, da quella iniziale del 1489 di Pierre Levet alla prima edizione critica e commentata delle sue opere di Clément Marot nel 1532, ne confermano l' immenso successo.
La sua fama è dovuta soprattutto al grande successo che ha esercitato sui poeti del diciannovesimo secolo, i romantici come per esempio Théophile Gautier, che iniziò proprio con uno studio sulla figura di Villon, la sua raccolta dei "grotteschi", una serie di testi critici dedicati agli autori minori del XVI et del XVII secolo. Baudelaire e soprattutto Verlaine ebbero per lui un vero e proprio culto.
Nell'accostarci all'analisi di quest'autore medievale va, dunque, tenuto in considerazione il fatto che la tradizione abbia lasciato di Villon solo un'opera corrotta e frammentaria. Nell'interpretare la sua poesia bisogna tener conto di questa confusione di testi manoscritti o stampati come anche del mistero di cui si sarebbe circondato l'autore.

Questi aspetti problematici non fanno che ingigantire la leggenda letteraria e stimolare l'analisi scientifica. La storia delle diverse interpretazioni testimonia la stupefacente densità del sistema di scrittura di un poeta che ognuno cerca di decifrare a suo modo.
Miracolo di una poesia che si presenta al contempo come enigma e comunicazione, essa suggerisce un'impressione di intimità nonostante la distanza, di autenticità nonostante la maschera. Come già detto, sulla figura di Villon si hanno poche notizie biografiche. François de Montcorbier era nato nel 1431, l' anno dell' esecuzione di Giovanna D' Arco; di origini modeste, rimasto orfano venne poi adottato da Guillaume de Villon, cappellano della chiesa di Saint-Benoit-le-Bétourné, che gli fece seguire gli studi necessari per entrare a far parte del clero e da cui prese il nome in segno di rispetto. Tuttavia il giovane François, terminati gli studi, incontrò grandi difficoltà nel trovare un posto tra le fila del clero ed iniziò ad avvicinarsi alla poesia ed allo spettacolo.

Il 5 giugno 1455 avviene l'episodio che gli cambia la vita e che è storicamente provato: mentre passeggiava in compagnia di un prete di nome Giles incontra nella rue Saint-Jacques un bretone, Jean le Hardi, maestro d'arte, in compagnia a sua volta di un religioso, un certo Philippe Chermoye; scoppia una rissa nella quale Chermoye rimane ferito mortalmente.
Accusato dell'uccisione del religioso, Villon è costretto a lasciare Parigi.
Fu prima di lasciare Parigi che compose ciò che è ora conosciuto come "Petite testament" ("Piccolo testamento") o "Le Lais" ("Lascito"), opera che mostra parte della profonda amarezza e rammarico per il tempo sciupato.
Nel Lais, in procinto di lasciare Parigi, il poeta immagina di lasciare ai suoi amici i pochi beni che possiede ma anche le miserie e le sfortune.
Nel 1458 Villon, rientrato a Parigi, è coinvolto in una rapina al Collegio di Navarra e si trova ancora una volta obbligato a lasciare la città: passa per Angers, Bourges, Blois dove il re, Charles d'Orléans, lo protegge e Villon lo ringrazierà con i suoi versi. Arrestato nuovamente nell'estate del 1461 per ordine del vescovo Thibault d'Aussigny, per un altro furto in una chiesa, è amnistiato e rimesso in libertà il 2 ottobre dello stesso anno.

Rientrato a Parigi, dopo aver scritto "Le testament" (Il testamento), la sua opera principale, viene per l' ennesima volta imprigionato, sempre a causa di furti e risse. Sarà torturato, processato e condannato all' impiccagione (è in questo momento che compose la Ballata degli Impiccati), ma il giudizio verrà annullato il 5 gennaio del 1463 e Villon verrà bandito da Parigi per dieci anni.
A partire da questa data non si hanno più sue notizie.
La sua opera principale, le Grand Testament riprende con maggiore incisività e varietà il tema centrale del Lais e rappresenta una sorta di bilancio della vita di Villon. Comprende anche una ventina di ballate, tra le quali, le più conosciute sono La ballade des dames du temps jadis e la Ballade des seigneurs du temps jadis, dove Villon si chiede cosa siano diventati i personaggi celebri del passato: sono tutti tristemente scomparsi, come le nevi d' un tempo.
Molto conosciuta è inoltre célèbre la Ballade pour prier Notre Dame, dove il poeta fa parlare sua madre, descrivendone la sua meraviglia ingenua nel contemplare un affresco che vede in chiesa. Nel Testamento, tra le Poésies diverses, si trova la poesia più celebre di Villon, l'Épitaphe Villon ou Ballade des Pendus che fu capace più delle altre di attirare l' ispirazione di De André.
Con tutta probabilità scritta da Villon quando si trovava nella sua cella di condannato a morte, la poesia è una rappresentazione dell' esecuzione al patibolo corredata da una vastissima serie di simboli inquietanti.
Il poeta si proietta nella tremenda condizione dell' impiccato in balia dell' accanirsi e dello scherno dei passanti. Incalzato dall' imminenza del suo ultimo respiro il poeta, lancia la sua invocazione per chiedere perdono e misericordia per se e per chi viene giustiziato insieme a lui "Priez Dieu que tous nous veuille absoudre".
Il suo linguaggio sa diventare pudico, commovente, toccante, insistendo sul registro dettato dall' umiltà redentrice La poesia di Villon è un vero e proprio grido di un poeta angosciato; il linguaggio utilizzato è vivo, crudo, spesso brutale ed a volte dotato di una certa dolcezza e malinconia.

Nel descrivere la realtà non utilizza artifici o falsi colori ma lo fa in modo diretto e tragico. I suoi temi principali che influenzeranno i grandi poeti ed artisti (anche Leo Ferré metterà in musica La ballade des pendus) che lo seguirono sono la pietà, il rimpianto per il tempo passato, la fraternità umana ed ancora l' ossessione della morte. Vediamo quindi come appare sempre più chiaro il filo conduttore che lega i due autori, o piuttosto la corda spessa, come dirà lo stesso De André nell' ambito di una Prefazione ad una raccolta di poesie del poeta medievale dove il cantautore genovese palesa apertamente la sua ammirazione per Villon e la condivisione dei principali contenuti.

…C'è un filo o piuttosto una corda spessa, che lega l'antico maestro ai suoi allievi dalle più disparate inclinazioni: per primo tra i profani tu hai dato alla forca dignità poetica, hai fatto dell'appeso qualcosa di sacro, di eterno, simbolo inquietante di impermanenza e disagio. […].
Io ti scrivo da un'altra epoca illuminata di ragione e di tecnica. […] La stessa guerra, rinnovatasi di cento in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d'Aussigny può decretare la fine dell'umanità in un tempo così breve quanto la pressione di un dito su un pulsante.

De André rivolgendosi al poeta "maledetto", lontanissimo nel tempo, ma che sente molto vicino a se per le tematiche trattate e per il crudo realismo con cui dipinge a tinte cupe ma lucide, l' ingiustizia dell'esistenza e l'inesorabile trascolorare del tempo sottolinea come l' enorme distanza temporale non abbia di fatto mutato lo stato delle cose; il cantautore evidenzia il ripetersi della storia e come il progresso, per molti versi, anziché approdare ad un' evoluzione abbia sancito un' involuzione ed un sostanziale regresso della condizione dell' umanità.
Se un tempo i potenti che decretavano e stabilivano il destino degli uomini si servivano della forca adesso la prepotenza e l' ingiustizia si avvalgono di nuovi strumenti per decretare la fine dell'esistenza dei propri simili.
La canzone di De André in cui più evidente appare l' influenza di Villon è, come già detto, La Ballata degli impiccati (titolo che richiama chiaramente la ballade des pendus), inclusa nell' album Tutti morimmo a stento del 1968. "La ballata occupa una posizione centrale nell'album di cui fa parte dal punto di vista contenutistico: il primo verso di questa canzone, infatti, dà il titolo al disco.
L'inizio è la cruda descrizione dei momenti finali degli impiccati, che muoiono con in gola l'ultima bestemmia, ma il messaggio che vogliono lasciare va al di là della loro condizione: è l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male; nessuno è colpevole, nessuno è innocente, nessuno ha il diritto di giudicare un proprio simile.
Nella canzone, gli impiccati augurano a chi li ha derisi di morire nel loro stesso modo; a chi li ha dimenticati, di morire ad un passo dalla meta; infine ad una donna che si è vergognata del loro ricordo, l'augurio è di perdere al più presto la bellezza e di essere sfigurata, senza appello, dal tempo. Il finale è una minaccia per chi vive ancora: la nostra morte non è la fine, ma soltanto una sospensione che proprio voi riprenderete." Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva"

In tutti morimmo a stento, il senso del tragico che ha sempre caratterizzato le opere di De André, raggiunge il suo punto più alto.
Si tratta di un vero e proprio viaggio ossessionante in un girone dantesco della desolazione umana e di morte.
E proprio la morte, intesa come negazione della vita, della dignità e della felicità, rappresenta la fondamentale ed inquietante chiave di lettura dell'intera opera che allinea tutto il triste campionario di un'umanità derelitta: tossicomani, impiccati, bimbi impazziti, adolescenti traviate.
Su tutti alleggia, nel dolente racconto dell'autore, la consapevolezza dei proprio peccato e dell'impossibilità a riscattarsene, l'avidità di luce e di quiete cui fa riscontro la condanna all'ombra e al tormento.
L'atmosfera dominante è tetra, funerea, densa di presagi di morte. I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli Intermezzi, in un crescendo che culmina nel Recitativo e si scioglie nel coro finale.
La canzone di DeAndré ripercorre il doppio binario tematico su cui è corsa la letteratura italiana: da un lato la linea estetico-intimista e, dall' altro, il versante etico-civile. […]
Tutti morimmo a stento è un album strutturato sull' alternanza dei due registri con quegli intermezzi evasivi di matrice rimbaudiana che affiancano l' allegorismo di un discorso che risente della lezione di François Villon, come di Franz Kafka (il potere, il processo e il castello…), di Dante ( loscenario infernale) come di Bertold Brecht (le interpellazioni finali), del Georges Brassens di Le Père Noel et la petite fille.
Ezio Alberione - Frammenti di un canzoniere - Accordi Eretici - 1997

La Ballata degli Impiccati, dotata dell'inconfondibile stile del cantautore genovese fatto di versi scarni, ruvidi e sarcastici, dipinge con tinte cupe e macabre, il rancore e la rabbia devastante di chi a causa delle proprie debolezze morali, o per il rifiuto o l'incapacità di rispettare le regole si trova ad essere condannato all' impiccagione.
Gli impiccati, anonimi, muoiono nel momento in cui cantano, e cantando nonriescono a perdonare, ma soltanto a lanciare invettive, contro il mondo intero..
Gli impiccati si rivolgono a tutta l' umanità invitando ad una riflessione sulla vita, proposta attraverso un martellamento ritmico tipico della marcia funebre, una sorta di "dansa macabra" finalizzata ad enfatizzare il senso di caducità della vita e l' ineluttabilità di una morte che viene rappresentata come uno scheletro orrendo.
Esaminando i testi, risulta abbastanza evidente come sia per de De André che per Villon, l'impiccato non sia un criminale da condannare, ma rappresenta piuttosto il simbolo della condizione umana, che vede l'uomo come un disperato in agonia.

Netta è la correlazione e i punti di contatto tra le due opere.
"Molti sono i fili che la legano alla Ballade des pendus di Villon, primo fra tutti il fatto che l'impiccato non è più il colpevole, giustamente o ingiustamente punito, ma diviene un'allegoria, come la carta dei Tarocchi, il simbolo della condizione umana, sempre sul bordo del male e della morte.
Comune, nei testi di Villon e De André, è la descrizione di particolari aspri, dei segni di un'agonia crudele, e l'invito a non sentirsi estranei alla sorte degli impiccati, perché, a ben guardare, c'è poco merito nella virtù e poca colpa nell'errore, e chi si crede incontaminato dal male, al punto da proseguire "tranquillo il cammino", commette anche lui un peccato contro l'uomo". Doriano Fasoli, Fabrizio De André.
Passaggi di tempo "Edizioni Associate, Roma 1999
Comune risulta anche la descrizione di particolari raccapriccianti e aspri che pongono ulteriormente l' accento sul martirio tremendo di cui sono oggetto i corpi degli impiccati.
A questo proposito bisogna dire che è il letterato francese a sviluppare maggiormente questo aspetto, con una dettagliata, cruda e macabra descrizione della disumana fine dei corpi degli impiccati:

"La pioggia ci ha lavati e risciacquati,
E il sole ormai ridotti neri e secchi;
Piche e corvi gli occhi ci hanno scavati,
E barba e ciglia strappate coi becchi.
Noi pace non abbiamo un sol momento:
Di qua, di Là, come si muta, il vento,
Senza posa a piacer suo ci fa volgere,
Più forati da uccelli che ditali.
A noi dunque non siate mai uguali;
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere! " (Villon)

Anche nel cantautore genovese ritroviamo tali dettagli cupi e macabri:

…l'urlo travolse il sole…
…l'aria divenne stretta…
…chi la terra ci sparse sull'ossa...
…un rancore che ha l'odore del sangue rappreso…(De André)

Nel confronto tra i due testi ciò che sembra distinguersi principalmente è il sentimento dominante da parte degli impiccati nei confronti degli "altri".
Se Villon conclude con un'invocazione a Gesù, per salvarsi l'anima, in De André gli impiccati serbano rancore ("che ha l'odore del sangue rappreso") e morendo bestemmiano.
Dalla poesia di De André esce uno spaccato, prima degli ultimi istanti di vita del condannato, poi le sue maledizioni lanciate contro chi sopravviverà, l' odio e il rancore di chi lascia la vita per mano altrui; appare chiaro il disprezzo del cantautore verso un giudizio risolutorio di un uomo (chi giudica) verso un proprio simile (il giudicato).
Di fronte alla morte si è tutti uguali, innocenti e colpevoli, un concetto che sarà ripreso più volte ne "Il testamento" quando De André canta: "quando si muore si muore soli" Nella ballata di De Andrè, i condannati a morte si trasfigurano ed appaiono animati da un disperato, smisurato rancore.
Una profonda rabbia ed un'amara avversione sono gli elementi caratterizzanti l'invettiva con cui gli impiccati, masticando l' ultima bestemmia, si rivolgono a chi li ha giudicati e condannati; gli impiccati, prima di abbandonare la vita, auspicano una simile fine tremenda a tutti coloro i quali li hanno derisi, condannati, dimenticati; alla donna che si è vergognata del loro ricordo, augurano di perdere la bellezza e di essere sfigurata.
Una maledizione lanciata contro il genere umano intero che vuole enfatizzare l' uguaglianza di tutti gli uomini davanti al male e come nessuno abbia il diritto di giudicare un proprio simile.

"Chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull'ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch'egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino
La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria". (De André)

Mentre invece ogni singolo verso della poesia di Villon è una vibrante invocazione alla pietà umana. Il poeta s' immagina impiccato, insieme ad altri, giudicato per le sue colpe verso gli uomini e Dio, per aver trasgredito quelle che sono le leggi dettate dal sentire comune e dal pensiero unico.
Villon, poetà della carità, si rivolge a chi lo ha condannato chiamandolo "fratello", invitandolo a pregare per lui e gli altri impiccati, nella misericordia di Dio, il quale avrà misericordia anche di loro.
Condannati ad un destino crudele, gli impiccati si rivolgono alla pietà umana, ormai destinati ad una fine orrenda cercano almeno quel perdono che coinciderebbe alla salvezza dell' anima e così quegli stessi uomini che li hanno condannati alla forca vengono invocati come "fratelli" già nel celebre incipit della ballata cinquecentesca "Fratelli umani, che ancor vivi siete Non abbiate per noi gelido il cuore, Ché, se pietà di noi miseri avete Dio vi darà più largo il suo favore:

Appesi cinque, sei, qui ci vedete:
La nostra carne, già troppo ingrassata,
E' ormai da tempo divorata e guasta;
Noi ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!" (Villon)

Ed ancora palese appare tale invocazione della misericordia umana nella ripetizione reiterata per ben cinque volte del verso

"Ma Dio pregate che ci voglia assolvere" (Villon)

E così mentre De André insiste particolarmente sull' agonia e sulla malvagità della pena inflitta:

ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un'ora.
Poi scivolammo nel gelo
Di una morte senza abbandono
Recitando l'antico credo
Di chi muore senza perdono.
Chi derise la nostra sconfitta
E l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscerne il nodo (De André)

Villon cerca di scuotere la pietà e la carità umana:

Non abbiate per noi gelido il cuore,
Ché, se pietà di noi miseri avete Dio
vi darà più largo il suo favore
Poiché siam morti, per noi ottenete
Dal figlio della Vergine Celeste
Che inaridita la grazia non resti, (Villon)

Inoltre, entrambi insistono sullo scherno del pubblico, mentre Villon lo fa per tre volte, De André si limita ad una ma evidenzia ugualmente il suo rimprovero verso lo scherno di chi guarda qualcuno che va al patibolo e paga con la vita per il male fatto in un'ora:

Nessun rida del male che ci devasta
Morti siamo: nessuno ci molesti
Uomini, qui non v'ha scherno (Villon)

…chi derise la nostra sconfitta… (De André)

C'è dunque l'invito al pubblico, da parte degli impiccati, presi a simbolo della condizione umana, a condividere la loro stessa sorte, a non sentirsi tranquilli e quindi impossibilitati di intrapendere il cammino con la coscienza pulita, un invito a riflettere sull'ingiustizia della pena di morte e dell' assurdità del destino umano.
A parlare attraverso la voce degli impiccati sono, i condannati a morte per qualsiasi reato, di tutti i tempi, di tutte le razze, di tutte le religioni; per il male fatto in un'ora, la società umana decide di giustiziarli, utilizzando un potere che solo Dio dovrebbe avere, toglie loro la vita.Sintomatico è come De André inizi la sua canzone, con quel "Tutti morimmo a stento" che dà il titolo all'album, in quel "tutti", comprende tutto il genere umano, i colpevoli e soprattutto gli innocenti, gli onesti, coloro che sopravviveranno sfuggendo la tragedia con la derisione, l'insensibilità e la vergogna di dar memoria; verso di loro i condannati lanciano una tremenda maledizione.

De André: ..chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.
Chi la terra ci sparse sull'ossa
E riprese tranquillo il cammino
Giunga anch'egli stravolto alla fossa (De André)

Villon: Fratelli umani, che ancor vivi siete
Non abbiate per noi gelido il cuore,
Ché, se pietà di noi miseri avete
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete
La nostra carne, già troppo ingrassata,
E' ormai da tempo divorata e guasta;
Noi ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere! (Villon)

Questo voler coinvolgere indistintamente tutto il genere umano al dolore ed all' atrocità di cui sono vittima i condannati che viene ben enfatizzata dal verso finale della canzone di De André "ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso" ) che vuole mettere in ulteriore evidenza come tutti viviamo in una condizione di "peccato" e dunque tutti, chi ha giudicato e chi è stato giudicato, chi ha condannato e chi è stato giustiziato, tutti sono coinvolti.
E' fondamentale far notare come, qualche anno dopo, in un contesto apparentemente diverso, sarà la Canzone del maggio, ispirata da un canto del maggio francese ad accomunare gli individui a un unico destino
"…per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti…"
(un verso che compare anche in Nella mia ora di Libertà - Storia di un impiegato del 1973); si tratta di una canzone di protesta, liberamente tratta da un canto degli studenti parigini del maggio '68, quando si registrarono scioperi operai e manifestazioni studentesche contro il sistema capitalistico, accusato di produrre sfruttamento e ingiustizie sociali e di manipolare le coscienze con le verità dei mass-media.
Nella canzone del maggio De André rievoca gli avvenimenti accaduti e, rivolgendosi a quelli che alla lotta non hanno partecipato, li accusa e ricorda loro che chiunque - anche chi, in quelle giornate, si è chiuso in casa per paura, menefreghismo o avversione - è ugualmente coinvolto negli avvenimenti. Il finale sostiene che la rivolta, lungi dall'essere esaurita, ci sarà ancora, ed ancora più forte, in futuro.
Se con l' album Morimmo a stento De André si avvicina in maniera diretta a Villon, bisogna constatare come già nella sua produzione iniziale, nel cosiddetto primo periodo, quello più nettamente "brassensiano", si possono notare riferimenti all'autore medievale, talvolta mediati dall' influenza osmotica del cantautore di Sète.

Brassens, infatti, sposa il ruolo che Villon si era creato nel Medioevo al punto tale che si può parlare di un incontro tra letteratura, musica e poesia che lascerà le sue indimenticabili ed indelebili tracce nell' immensa produzione di Brassens che seppe far proprio e rivisitare l' autore cinquecentesco. François Villon , poeta malfattore la cui figura resta avvolta nella leggenda, poeta della miseria e della carità che da voce agli impiccati, sul punto di abbandonare la loro esistenza, per implorare i passanti, i "fratelli umani", perché abbiano misericordia di loro.
Possiamo vedere in Villon una sorta di fratello e guida ispiratrice di Brassens; troviamo nelle loro opere le stesse tematiche, la stessa ironia mordente, lo stesso sarcasmo drammatico, gli stessi valori. Si pensi soltanto al fastidio di Brassens, per usare un eufemismo, nei confronti della polizia e di tutto ciò potesse rappresentare il potere costituito.
Villon sbeffeggia continuamente i ricchi e i potenti che opprimevano il popolo, di cui si fa portavoce nel denunciare le angherie e i soprusi cui i più umili sono sottoposti. Si pensi poi, al rapporto tra Brassens e le donne, descritte spesso come tentatrici, sadiche, spietate nei confronti dei sentimenti e della sensibilità dell' uomo, al punto che il cantautore francese venne addirittura tacciato di misoginia. Basta leggere l' opera di Villon per riscontrare la stessa atmosfera, i due poeti denunciano la stessa sofferenza causata dalle donne amate.
E tra la villoniana Ballade de la grosse Margot dove il poeta racconta la sua vita da protettore e amante al tempo stesso di una prostituta dalla quale viene umiliato e "Le mauvais sujet repenti" di Brassens sembra esserci un invisibile filo conduttore che ha resistito al passare dei secoli.
Quello di Brassens nei confronti di Villon è un vero e proprio culto tanto che arriverà a citarlo espressamente nel testo di una delle sue canzoni Le Moyenâgeux:

Dopo un abbondante pasto
Mi sarebbe piaciuto, senza alcuna vergogna,
correre dietro una sottana
seguendo i passi di François Villon

dove il cantautore dichiara espressamente la sua passione e la sua affinità nei confronti del poeta medievale e del Medioevo in generale.
Si ricordi poi che Brassens ha messo in musica una delle più belle e conosciute ballate di Villon "La Ballade des dames du temps jadis" una riflessione su come tutto scorre inesorabilmente, come la miseria e la gloria scorrono via velocemente allo stesso modo, una amara ma lucida riflessione sull' universalità della morte che porta Villon a chiedersi dove siano andati a finire le grandi donne di un tempo e la risposta che trova e che sono scomparse come le nevi di un tempo.

Dove sono? Non saranno certo in terre laide
Flora la bella romana, l'etera di Sofocle,
e Taide che fu di lei germana.
Eco che canta se c'è baccanale
vicino a stagni e a rivi,
ch'ebbe bellezza fuori dal normale
ma dove sono le nevi d' un tempo?
Dov'è il senno di Heloise?
Per lei Abelardo ottenne castrazione
E l'ordine di frate a St. Denis.
Per amor suo subì tale sanzione.
Così dov'è la nobildonna
che ordinò con cenni lievi
che Buridano fosse buttato nella Senna
ma dove sono le nevi d' un tempo?

Villon, proveniente da origini molto umili, dimostra come non fosse necessario essere potente o benestante per essere un artista geniale; ci ha dimostrato che il mondo dei diseredati, degli umili, del popolo merita di essere raccontato quanto quello dei ricchi e dei benpensanti; ci ha dimostrato che la bravura e la vera originalità di un artista consiste nel saper dipingere ed esaminare la società con uno sguardo ironico ed amaro, senza mai smettere di aver fiducia nell'uomo e nella sua capacità di progresso e sviluppo. E' soprattutto in questo che si ritrova Brassens; e non è un caso se questi due grandi poeti rappresentarono il principale punto di riferimento per l' ispirazione di Fabrizio De André.
Lunga è dunque la serie di riferimenti, diretti o indiretti, e punti in comune nei quali s' intreccia il sentire comune di De André con quello di Villon e vengono affrontate tematiche profondamente insite nel loro intimo come il trascolorare del tempo e della bellezza, la morte vista come unica forza capace di appianare le disuguaglianze e le ingiustizie che separano tragicamente la vita degli uomini, la solitudine, la drammatica condizione dei poveri e degli emarginati; entrambi capaci di trattare queste sia con crudezza sia con metafore poetiche, entrambi dotati di una forza e di un' invettiva mai fine a se stessa e lontanissimi dalla tentazione di assumere facili ed ipocrite posizioni unilaterali.
Un tema che troviamo accomunare entrambi è quello dell' inesorabile trascolorare del tempo, dell'ineluttabile avanzata della vecchiaia che comporta la perdita della bellezza; in "Valzer per un amore" del 1964 questa tematica domina l' intera canzone, il tema dell'amore che va colto "finché è primavera", perché il tempo cambia continuamente e trascorre veloce e si concretizza nell' invito che l' uomo fa alla donna perché non aspetti.

Vola il tempo lo sai che vola e va
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età
siamo noi che ce ne andiamo
e per questo ti dico amore amor
io t'attenderò ogni sera
ma tu vieni non aspettare ancor
vieni adesso finché è primavera (De André)

Versi che richiamano inequivocabilmente la Ballata dell' amica di Villon contenuta nel Testamento dove i contenuti sono veramente simili.
Per entrambi c'è l'invito a godere, finché è possibile, dei frutti che la vita offre, senza rimandare fino a quando non sarà più possibile coglierli.
Bere finché c'è acqua, cogliere il fiore finché è primavera.

Tempo verrà che ben farà appassire,
Seccare, sfiorire il tuo fiore superbo (Villon).
Io sarò vecchio, tu brutta, scolorita,

Bevi a piena gola fino a che c'è acqua;
Non dare a tutti lo stesso dolore:
Senza infierire soccorrere chi soffre (Villon).

Liana Nissim, in un suo saggio contenuto nel libro Accordi eretici, ha riconosciuto nel Valzer per un amore di De André l' influsso di Ronsard:
" Non bastano a De André le parole che egli stesso sa inventare per cantare l'amore incerto, per cantare la donna amante: egli unisce talvolta le sue parole a quelle dei poeti e canta con loro l'amore che fugge, il tempo che fugge.
Come non riconoscere nel Valzer per un amore il celebre sonetto "Quand vous serez bien vieille" contenuto nel libro dei Sonets pour Helene. Canta De André:

Quando carica d'anni e di castità tra i ricordi e le illusioni
del bel tempo che non ritornerà troverai le mie canzoni
nel sentirle ti meraviglierai che qualcuno abbia lodato
le bellezze che allor più non avrai e che avesti nel tempo passato. (De André)

E canta Ronsard:

Quando sarete vecchia, seduta accanto al fuoco
a parlare e filare al lume di candela,
direte, cantando i miei versi e meravigliandovi,
Ronsard mi lodava nel tempo in cui ero bella. (Ronsard)

Il sentimento della vita, apprezzata nei suoi valori precari della giovinezza, della bellezza e dell'amore, induce De André e induce Ronsard all'invito a godere dell'effimera primavera, delle effimere rose:

ma tu vieni, non aspettare ancor, vieni adesso finché è primavera (De André)

Vivete, se volete darmi ascolto, non aspettate domani:
cogliete fin da adesso le rose della vita. (Villon)

Liana Nissim - Fabrizio De André - Accordi eretici - 1997

Un tema quello dell' inesorabile trascorrere del tempo che è abbondantemente presente nell' ambito della produzione villoniana, lo ritroviamo nella "Ballata delle donne d' un tempo" (Ballade des dames du temps jadis) ne "I rimpianti della bella fabbricante di elmi" (Les regrets de la belle heaulmière) dove il rimpianto lirico del tempo perduto sembra procedere sotto braccio con il personaggio femminile protagonista di Valzer per un amore di De André. Anche nel poema di Villon, infatti, la fabbricante di elmi vede sfiorire miseramente la sua bellezza, si ritrova vecchia ed abbruttita dal tempo e ripensa sospirando al fascino che possedeva un tempo e che non tornerà più.
Così dopo aver lanciato la sua aspra invettiva contro la vecchiaia vigliacca che così presto le ha tolto la bellezza, rievoca con grande nostalgia ed un amaro rimpianto tutti quegli amori di cui non fu capace di godere sufficientemente.
Anche qui, appare abbastanza palese quello che è l' alquanto cinico "carpe diem" gridato dalla poesia di Villon a profittare della bellezza e della giovinezza prima che la vecchiaia e la morte sopravvengano inesorabili.

Altro tema ricorrente nella produzione di Villon è quello della morte, bisogna considerare che il poeta medievale passò buona parte della sua vita con la consapevolezza di dover essere impiccato per le colpe per cui veniva imprigionato frequentemente.
Il poeta dunque sentiva molto il peso e l' incombere della morte sulla sua esistenza ma al tempo stesso nell' inesorabile falce della morte vedeva una forza positiva in quanto unica forza capace di eliminare ed annientare totalmente quelle differenze tra gli uomini e quelle ingiustizie che tanto rendono diseguale l' esistenza degli esseri umani; l' unica forza in grado di mettere tutti su uno stesso piano, di mettere l' uomo di fronte alla sua essenza e alla sua solitudine.

Il tema della morte percorre l' intera produzione del poeta medievale e non a caso la sua opera principale è Il Testamento, in cui Villon, vicino ormai all' ultimo istante di vita, elenca in modo sferzante ed ironico i lasciti ai suoi che cari probabilmente resteranno delusi.
Troviamo una versione del Testamento anche in Brassens dove però non si può parlare di una traduzione dell' opera di Villon ma di una ripresa semantica da parte del cantautore francese che sviluppa la stessa tematica della solitudine cui deve far fronte l' uomo quando la morte lo viene a chiamare.

A proposito del Testamento di Villon possiamo notare come echi di quest'opera siano presenti anche in un'altra canzone di De André, Il Testamento, in cui il richiamo al poeta francese è evidente anche nella scelta del titolo.
E' naturale, che il Testamento villoniano avesse un influenza diretta sul cantautore genovese anche perché il tema della morte è un tema caro a De Andrè, presente nell' ambito di tutta la sua produzione ed affrontata sotto un ottica pressoché identica a quella di Villon.

"Insistito e modulato secondo un vasto spettro di registri era il tema della morte: vero e proprio tabù per la mentalità della piccola borghesia arricchita (lo storico Philippe Ariès ha parlato di pornografia della morte ) nelle società occidentali avanzate. Suicidi, impiccati, annegati, ammazzati, spesso innamorati affollano le canzoni di Fabrizio De André [...].Scandaloso oltre al tema era il modo di parlarne: una morte senza elaborazione del dolore, senza conforti religiosi e senza lutto, senza vertigini esistenzialistiche o decadentismi poetici (ma con qualche sotterraneo rimando a Cesare Pavese e forse anche a Umberto Saba e a Federico Garcìa Lorca), una morte ostentata e virile e anche talvolta rancorosa, scarna e contenta, luminosa, non notturna, quasi si direbbe ottimista, ridente e irridente [...].
La morte era pure, qualche volta, la morte in guerra, forse la più assurda umanamente, benché storicamente indistruttibile. Le canzoni di Fabrizio De André ponevano una questione allora molto sentita, specialmente a livello giovanile ma anche tra intellettuali come Bertrand Russelle o Jean Paul Sartre: pacifismo e critica del bellicismo, incitamento all'obiezione di coscienza e ironia amara sulla retorica dell'eroismo militare".
Fulvio De Giorni,. in Fabrizio De André. Accordi eretici

Nel testamento, il moribondo lascia a ognuno qualcosa, che si tratti di beni materiali o meno questo poco importa, è il senso del lascito che conta per svelare gli affetti, i rancori e, in sostanza, la natura dei sentimenti che legano il morto a coloro che restano.
Questa canzone si inserisce in quel filone della letteratura che nel Quattrocento francese ha dato molti capolavori e al quale lo stesso Villon aveva attinto. Non vi è però, né in De André né in Villon, il riferimento, tipico di quella tradizione, a quella danza macabra della morte che prende per mano tutti, a qualunque categoria sociale appartengano, per farli ballare insieme. Ma qui non c'è una sola condizione umana che valga qualcosa di fronte alla morte, non c'è il conforto di essere morto come tutti gli altri, c'è al contrario lo sconforto di essere morti e di essere morti da soli. Nessuno in punto di morte può alleviare la sofferenza dell'addio. Non c'è sdegno contro tutto ciò, ma solo un sentimento di impotenza che viene dalla constatazione di quest'ultima solitudine.

Chiunque muore, muore con dolore[…]
Né c'è chi dei suoi mali lo sollevi… (Villon).

…Cari fratelli dell'altra sponda
Cantammo in coro giù sulla terra
Amammo in cento l'identica donna
Partimmo in mille per la stessa guerra.
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore, si muore soli.
Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore si muore soli…(De André).

Anche qui i versi sono completamente diversi, c'è una forte manipolazione da parte di De André che prende da Villon solo i contenuti, li usa per chiudere la canzone, mentre in Villon questi versi precedono i lasciti assolvendo ad un funzione introduttiva.
È presente poi in Villon una breve disquisizione sulla natura delle donne che offre a De André lo spunto per un lascito:

…Così, secondo questa usanza, si presero
L'amante, è tutto chiaro:
Amavano tenendolo nascosto,
Visto che nessun altro ci passava.
E tuttavia questo amore poi si spezza,
perché quella che ne aveva uno solo
Da lui si stacca e va per la sua strada
E preferisce amarli tutti quanti […]
I folli amanti ne pagano lo scotto
E le signore li battono sul tempo.
È la giusta ricompensa che tocca agli amanti,
ogni patto vi è sempre violato.
Per qualche dolce bacio o qualche abbraccio,
con cani e uccelli, armi e amori,
È pura verità ben nota a tutti -
Per una gioia cento dolori… (Villon).

…Voglio lasciare a Biancamaria
Che se ne frega della decenza
Un attestato di benemerenza
Che al matrimonio le spiani la via
Con tanti auguri per chi c'è caduto
Di conservarsi felice e cornuto… (De André).

Questo è il primo riferimento al Testamento di Villon che troviamo nell’omonima canzone di De André. Da Villon prende il succo dei versi: le donne seguono la regola di amare un uomo alla volta, ma prima o poi questo amore finisce, allora da «uno solo» si passa ad amare «tutti quanti».
Ciò significa per Villon che alle donne un solo uomo non basta. E ciò non è una colpa, poiché dipende proprio dalla loro natura, è una condizione propria dell'essere donna.
Perciò all'uomo che di una donna si innamora non resta, per una sola gioia, che sopportare cento dolori.
De André nel suo testamento, in modo ironico, fa di questa natura un attestato di benemerenza per la disinvolta Biancamaria che essendo donna e fregandosene della decenza inventata dall'uomo, dà libero sfogo ai suoi sensi.
Scorrendo tra i lasciti di Villon, arriviamo a quello per la moglie:

… al mio amore, alla mia cara rosa,
Non lascio il cuore e neanche i fegato;
Le piacerebbe di più qualche altra cosa,
Benché abbia abbastanza denaro…
E cosa? Una gran borsa di seta,
piena di scudi, ben profonda e larga,
Ma che sia subito impiccato, me compreso,
Chi le lasciasse né scudo né targa… (Villon).

… Per quella candida vecchia contessa
che non si muove più dal mio letto
per estirparmi l'insana promessa
di riservarle i miei numeri al lotto
non vedo l'ora di andar fra i dannati
per riferirglieli tutti sbagliati… (De André).

In questo lascito c'è un luogo comune, quello della satira contro le donne avide di soldi, verso le quali si scaglia però l'ironica vendetta di De André. Infatti se Villon lascia maledizioni a chi voglia assecondarle, De André le prende in giro rivelando l'intenzione, di rivelare da morto, in sogno, i numeri del lotto, ma naturalmente quelli sbagliati.

http://www.nakataimpastato.com/inner/fda/fda/inside/french/pages/villon.htm

Anna Maria Ortese, Le piccole persone. Davanti al dolore fisico, tutti gli animali sono uguali. Anche l'uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso. Ma, stabilito questo, resta la domanda: perché mai... il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma, se deve procurare qualche nuovo beneficio all'uomo, è una fatalità benedetta? Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente? Soffrono atrocemente e infinitamente?

Davanti al dolore fisico, tutti gli animali sono uguali
Anche l'uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso.
Ma, stabilito questo, resta la domanda: 
perché mai... il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma, se deve procurare qualche nuovo beneficio all'uomo, è una fatalità benedetta?
Perché questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente? Soffrono atrocemente e infinitamente?
Anna Maria Ortese, Le piccole persone


(…) questa Natura, con i suoi rituali eterni e la sua segreta tristezza, ci parla invariabilmente di un passato, di una partenza, di un Altrove raggiante, di pace, e del giorno in cui ne fummo allontanati. E senza questa memoria di una ferita ormai indimostrabile, di questo lutto in sogno, esodo e frontiera perduta, forse non si può “scrivere”. Perché scrivere, quando non si giochi, è proprio questo: cercare ciò che manca, dappertutto – bussare a tutte le porte – raccogliere tutte le voci di un evento che ci ha lasciati, e quando non le voci, i silenzi – scritti in ogni corteccia d’albero, in ogni dura pietra, quando non pure nelle risuonanti, sempre uguali narrazioni del mare.
Anna Maria Ortese, Le piccole persone




IL MALE FREDDO DI ANNA MARIA ORTESE.
Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile. Sono esigente col mondo, non vorrei che le cose fossero come sono, ma conoscendo del mondo solo delle parti infime e dando giudizi che invece riguardano tutto, finisco per sembrare e per essere ingiusta, e così preferisco non parlare. Per questo quando mi si chiedono notizie su di me mi viene rabbia. I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco.

Non seguo la letteratura contemporanea, so poco chi sono gli scrittori che valgono. Non conosco gli altri, degli altri paesi, e questo è sbagliato. E anche questo va messo sul conto dell’antipatia… i poeti? Caproni. E naturalmente Montale: le sue poesie mi vengono incontro, c’è il Nord, c’è il freddo, certo, ma con una radice dolcissima. Mi piaceva molto Gozzano.
Stevenson ha avuto un’influenza su di me? Sì, perché guardava tutto con gli occhi di un bambino, c’era il gioco della vita, i briganti, l’avventura… Il “cattivo” dell’Isola del tesoro, il Capitano zoppo, non è, come ha detto qualcuno, il male odioso, puro, totale. Dove c’è divertimento, non può esserci il male assoluto, c’è il lato ingenuo del male, il lato infantile. Il male vero è l’industria, è il denaro. Il male è il freddo che essi provocano; se oggi ci fosse più calore, non ci sarebbe tutto questo male. Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali… resta solo il denaro, che chiede e impone un’altra natura, una natura artificiale. Una volta delle persone in cenci potevano sembrare vestite di tutto lo splendore della terra. Ho visto di recente il Pinocchio di Comencini: quanto freddo vero c’era in quegli anni, ma anche quanta libertà: un pezzo di legno, cioè niente, e si apriva il mondo della libertàoggi tantissima gente al confronto sta benissimo, ma è come se avesse perduto ogni energia profonda, e come se avesse perduto la bellezza. Io ho avuto il vantaggio di una famiglia che mi lasciava libera di camminare e di leggere: sono state queste due possibilità a formarmi. Un tempo i giovani pensavano, avevano idee, non finiva tutto in attività organiche come è ora, non c’era un tempo libero da sciupare malamente come lo sciupano oggi. Una persona importante ha detto a proposito dei morti del sabato sera, dopo le discoteche, che bisognerebbe mettere nei pronti soccorsi del personale medico specializzato nel recupero immediato degli organi dei ragazzi morti negli incidenti di auto. Addirittura. Io sono stanca di vedere ricchi, gente che spende troppo per vestire, che vive nell’imitazione di gente ancor più ricca. L’oro, il denaro, hanno tutto questo spazio perché c’è la televisione, non potevano averlo senza le televisioni. Il desiderio è diventato il veleno. Nessuno consiglia il distacco, nessuno consiglia a nessuno: “ferma il desiderio”. Occorre fermare il desiderio. Invidio la libertà che c’era prima dell’industria.

Se uno è soffocato da un peso, questi va aiutato a rimuoverlo. Siamo una famiglia, dobbiamo assumerci le responsabilità di una famiglia. Chi soffre deve essere aiutato subito. Dove questo non avviene, non posso considerarlo il mio mondo. Ognuno è responsabile della caduta degli altri, e deve pagare per loro. Siamo coinvolti non per una nostra colpa, ma come membri di una famiglia. Anche se ne fossimo i membri privi di colpa, abbiamo delle responsabilità. Jimmy Op, in Alonso e i visionari, vuole riparare. Il concetto centrale del libro è questo. Io non credo nella condanna, per esempio non credo nell’inferno. Non vado in chiesa dall’età di 14-15 anni per l’orrore che mi fa l’idea dell’inferno, della pena eterna… dove c’è il dolore bisogna toglierlo, e subito. C’è un ragazzo in America che aspetta da dieci anni il boia che gli dia la morte, che è condannato a morte, che vive nell’attesa. Sarebbe persino meglio se lo ammazzassero, è orribile questa condanna all’attesa. Ma sarebbe meglio se lo liberassero. Chi è caduto va aiutato. Sia esso un verme, un dittatore, una creatura qualsiasi… Bisogna aiutare il prossimo sempre. Ci sono tanti ragazzi colpiti da Aids, che cosa si fa per loro? Chi cade è invece il più disprezzato. Ancora e sempre: guai ai vinti!
Si tolgano i soldi alle spese dei ricchi, alle spese ricchissime. Quando c’è chi soffre, queste spese sono immorali. Il divertimento è immorale, quando gli altri soffrono. Bisogna stangare tutto ciò che è follia consumista, divertimento. Il divertimento è tempo rubato a chi ha bisogno di aiuto. Invece su queste cose nessuno si arrabbia più, si lascia correre. Non bisogna perdonare tutto. È per questo che io risulto antipatica e che mi sento antipatica, che non posso essere simpatica.

Solo chi ce l’ha, sa davvero cos’è il dolore. Sì, è vero, un qualche dolore, una qualche infelicità l’hanno tutti. E allora? Allora si tratta di aiutare tutti, di non dire mai di no a uno che ha bisogno di aiuto, di essere intimamente pronti ad aiutare, sempre. C’è anche il dolore della natura di cui tenere conto, che è immenso; pensiamo soltanto agli allevamenti di animali, a tutte quelle creature tenute rinchiuse per poterle uccidere, pensiamo al dolore degli animali. Sarebbe meglio rinunciare a tutto, piuttosto che condividere queste colpe, o tollerarle. Per salvare il mondo c’è bisogno della nostra responsabilità, per salvare noi stessi dobbiamo responsabilizzarci verso il mondo. La creazione è tarata, ma si può correggerla. Però non bisogna perdere tempo, il tempo che ci resta è poco, la natura sta morendo. E il tempo che ho io è limitatissimo: se non parlo di queste cose, di cosa parlo?
Parlando di libri, di romanzi, di letteratura, bisognerebbe anche parlare di stile. Nell’opera è fondamentale lo stile, ma a volte, quando la società intorno a noi non sente, non conta: lo stile, in questo tipo di società, non conta più nulla.
Non ho più le piccole cose che possono dare consolazione; o meglio: non mi consolo più con le piccole cose. Non è retorica, davvero mi detesto, davvero mi viene sconforto a considerare cosa scrivo e faccio, cosa ho scritto e ho fatto. Le interviste le vedo come delle provocazioni. Io non voglio piacere per un’immagine, io non voglio “immagine”. Non posso più avere rapporti con la realtà, la realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto.
I libri, la scrittura, l’invenzione… sono ricordi e malattie dell’intimo. I libri sono ferite dell’anima. L’ostrica costruisce perle vere, io forse no, le mie sono forse perle false. Però questo so fare. La perla è la malattia dell’ostrica. Scrivere è una malattia; mi costano molto queste cose luccicanti che cerco di costruire.

Nei miei libri ci sono proposte che appaiono ineluttabili, proposte che il mondo rifiuta. Ci vorrebbe rinnovamento, nel mondo, non rivoluzione, che alla fine non cambia niente. L’importante è il rinnovamento.

Questo articolo è stato pubblicato il 30 maggio 2011 alle14:35 e archiviato in carte, incisioni, indiani. Segui le risposte a questo articolo con il feed RSS 2.0.

a cura di Andrea Breda Minello
https://www.nazioneindiana.com/2011/05/30/il-male-freddo-di-anna-maria-ortese/


Nota del Curatore
Due anni prima di morire, Anna Maria Ortese rilasciò a Goffredo Fofi per Linea d’ombra (1996) le dichiarazioni sopra riportate.
La scrittrice può e deve essere annoverata fra la schiera di quei nostri profeti laici troppo spesso vilipesi, mal interpretati o piegati a logiche che con la verità non hanno nulla a che fare. Profetessa laica, come lo sono stati Morante e Pasolini, in una costellazione di sostenitori dello scandalo, come punto di partenza per resistere agli abomini della società post-post-moderna. Questi lacerti, così come gli scritti di Corpo Celeste o il morantiano Pro o contro la bomba atomica e gli Scritti Corsari di PPP, sono il passepartout di una resistenza civile, prettamente umana, di una denuncia quotidiana del “vizio di forma”, corto circuito che palesa unicamente il ripiegamento, un’implosione del mondo.
Eppure Ortese, che talvolta sembra Cassandra, talvolta Sibilla, interiorizza e ripropone la lezione leopardiana della Ginestra con un dettato inusitato, che non ha pari o quasi nel nostro Novecento.
Andrea Breda Minello





AD ANNA MARIA ORTESE

io iguana
in fuga dal mondo
nata da libri incantesimo
in cerca di fiaba apparizione visione…

in cerca d’un luogo
che mi rivoltasse il cuore come un calzino
inchiodata all’abbraccio di tutte le anime
affrancata da ogni sconfitta…

in cerca d’un luogo
in mezzo al deserto
alla finestra d’una misera casa gialla
affacciata sul porto…

lontano
dalle virtù del nulla
che affogano il mondo

in cerca di salvezza

io

in una lacrima
ho visto i colori d’ogni diversità
d’una sola nuda fierezza

nell’indigenza del bene
che parla con parola sommessa….

in compagnia
di zingari e bimbi
in quel luogo trovato
ho amato il mio aleardo
in un luogo in mezzo al deserto
iguana che guarda più in alto…

affiliata al partito
dei cercatori di dio
d’un dio altro dalla pena del mondo
respirando a pieni polmoni
perché sacro
è il respiro
del bosco
del lupo
del cane…

io

in fuga
da trentasei case e dieci città
ho trovato infine quel luogo
in una sola stanza tana in cui

patire scrivere amare…

S. D. A . , 15 . 12 . 2008









Gli scritti di Anna Maria Ortese, il mondo discende dalle stelle.
Nella raccolta di scritti di Anna Maria Ortese Le Piccole Persone (Adelphi) emerge l’universo apocalittico della scrittrice: gli animali e il loro dolore, l’uomo e la natura
di PIETRO CITATI

Sotto il titolo Le piccole persone (In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi), la casa editrice Adelphi pubblica numerosi bellissimi scritti di Anna Maria Ortese, in gran parte inediti. In apparenza sono testi sparsi: frammenti. In realtà, come accade sempre in un grande scrittore, appartengono tutti a un sistema. La Ortese ha una mente lucida, ardimentosa, estrema, abitata da una passione filosofica, che la induce a interrogare i misteri di questo e dell’altro mondo, del qui e del perennemente oltre.

«Le piccole persone» (Adelphi, pp. 272, euro 14)
Il primo dei suoi pensieri è il desiderio-dolore metafisico, la leva di ogni mente umana. «Ogni tanto — scrive nel Cardillo addolorato — , di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo. Dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi — io — fra miriadi di abitanti la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa sia questa galassia fra le altre galassie? Ma il luogo soprattutto vorrei sapere, e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente, e il suo vero nome, e, se non ha nome, il perché di questo silenzio sul nome». Con il desiderio-dolore metafisico in cuore, la Ortese batte alle porte dell’Essere; e domanda quale sia l’essenza del mondo e della natura e che cosa presieda ai fatti, e quale ne sia l’ordine, il senso, il principio. Scruta la verità con tutto il corpo — con il corpo delle piante, degli alberi, delle pietre, degli animali, degli uccelli — e sopratutto con il corpo delle stelle, dalle quali è discesa.

Il dolore è, in primo luogo, quello degli animali, supremo tra i suoi pensieri. Ascolta questo dolore specialmente il mattino, quando gli uccelli gridano invocando la madre o i figli, che sono stati loro strappati. Anche se Dio apparisse benedicendo dall’alto dei cieli, se il male fosse vinto, se tutte le creature vivessero giuste e felici, se Utopia fosse qui, basterebbe la sofferenza di una lumaca che un bambino ha schiacciato camminando, perché appaia chiara l’ingiustizia e la malvagità dell’universo. La Ortese difende gli animali. Essi sono «anime viventi»: tale è il loro nome nei libri sacri: sono anime viventi come l’uomo: come lui, sono creature di Dio, anzi sono Dio; ma oggi occupano il grado più basso della vita vivente, soggetti alla infame programmazione dell’uomo. L’uomo si appoggia a un passo della Genesi, per affermare il suo dominio sull’universo e gli animali, che considera sua proprietà. Ma quel passo è falso o è stato male interpretato: l’uomo non è mai stato eletto signore degli animali. Dio è presente in tutte le forme dell’universo: in tutti gli immani cortei di stelle, nei pianeti, nel nostro pianeta, nelle montagne, nei mari, nella terra fiorita, nell’uomo, e in tutta la incomparabile energia che organizza le proprie forme, le completa, e poi le disperde in un solo soffio.

La Ortese esalta le origini: un Padre, un Paese beato e felice, che sta prima delle origini; sia la natura sia l’uomo sono mossi di lì, e poi sono naufragati. Allora è avvenuta la separazione: la separazione dell’uomo dalla natura, la separazione della natura da un altro incomprensibile; il naufragio, di cui parlarono Leopardi e Pascoli. Questa separazione ha causato il lutto della natura: essa risuona nelle voci degli uccelli, sopratutto di quelli più lieti; «una nota accorata, un’alta e trepida malinconia». Come Leopardi e Pascoli, la Ortese ama gli uccelli: questa famiglia di origine angelica che, nel fitto delle foreste, canta per l’uomo, ricordandogli che Dio non l’ha dimenticato: questi esseri gonfi di cielo, la cui patria è il cielo squillante di colori, splendido e inebriante come uno stendardo azzurro; questi capini macchiati di rosso, con le penne piccole, lisce e diritte, che sembrano uscire da un liquido fuoco o da un largo d’oro e turchino. Per uno scrittore, la cosa essenziale è ascoltare il canto degli uccelli, e ripeterlo. Ma dove sono? «Mi ricordo improvvisamente degli uccelli — dice la Ortese — che un tempo popolavano la mia casa e, non vedendoli più, mi domando con stupore: “Dove sono, dove sono volati?”. Non posso credere che siano morti».

La Ortese non ha fede nella pura letteratura: o soltanto in quella che muove dalla meraviglia, dall’ammirazione e dalla compassione; verso tutte le forme, quelle che sono fuori dal mondo e non vediamo, e quelle che appaiono e scompaiono sul nostro pianeta. La compassione è la qualità propria dell’uomo: senza compassione l’uomo è nulla; niente ha valore in tutta la vita dell’uomo sulla terra, nemmeno l’arte e la religione, se non viene accompagnato dal desiderio di soccorrere un altro, vivo e dolente. La compassione sceglie ciò che è piccolo e segreto. Piccolo è il sentimento di un bambino per il suo cane, o di una donna per il suo ultimo bambino. Il piccolo è anche segreto, perché, essendo piccolo, non è consapevole di esistere. Così le farfalle, specie quelle moribonde. «In un angolo, combattendo ancora, ma molto debolmente, contro la morte — racconta la Ortese —, c’era una di quelle farfalle color seta cruda, piccolissime, quanto un chicco di riso, che spesso, la sera, entrano dalle finestre aperte nelle nostre case. Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate e, strette in un pugno, sentono ridere, e con i loro poveri occhietti osservano gli strumenti che serviranno a torturarli. Io sapevo che non possono parlare e neppure esprimersi in altro modo, ma con tutte le loro innocenti forze si ribellano e chiedono la grazia della vita». In ogni momento milioni di vite gaie e dolci chiedono di essere risparmiate, e la risposta è quasi sempre un rifiuto.

Il mondo della Ortese discende dalle stelle e ritorna verso le stelle. Esso è apocalittico. Ora invoca la distruzione dell’uomo, questa creatura senza legge, travolta dai suoi delitti. Ora invoca una Nuova Terra, una terra riscattata dai vecchi e turpi dèi della tortura e del massacro, dove potrà vivere anche l’uomo, trasformato e risorto. «Ecco cosa chiede il vero vivente — a gran voce, nella notte, chiamando lo spirito, uno e solo, di tutta la vita». Persino l’Italia, questa terra corrotta, riapparirà un giorno, calma e gentile sotto un cielo celeste. Ci saranno giardini, boschi, belle città. Una popolazione rara e mite vivrà in questi luoghi benedetti. «Avremo allora — finalmente — la malinconia». Essa sarà presente nelle voci degli uccelli, questa nota suprema e velata, che chiede, interroga, sa tutto sul passare delle cose; e nel dolore dell’uomo, vero colore della sua grazia.



21 aprile 2016 (modifica il 22 aprile 2016 | 17:24)
http://www.corriere.it/cultura/16_aprile_21/anna-maria-ortese-le-piccole-persone-adelphi-libro-a81ea904-07d3-11e6-baf8-98a4d70964e5.shtml


Un giorno l’agnello parlerà.
Siamo un paese senza fronte. O con due dita di fronte. Non posso commentare in altro modo la tranquillità con cui è stata accettata una recente decisione del ministero della sanità. D’ora in poi, vitelli e agnelli italiani, destinati ai mercati del Medio Oriente, verranno uccisi, in Italia, con un rito antico, che garantisce a quelle popolazioni di non essere contaminate (e vedere compromessa la salvezza finale dell’anima) dal sangue animale. Se vogliamo vendere a quei mercati (e l’Italia vuol vendere) bisogna non vendere anche il sangue. Il sangue animale sia versato, ma non contamini la purezza delle anime antiche. Si sa bene che il dolore dato non contamina: dunque, si preferisca il dolore, e si eviti la contaminazione del sangue. Per arrivare a questo risultato, che non resti nel corpo animale traccia di sangue, il rito è antico, quindi efferato: ma il denaro è denaro, la Salvezza è la Salvezza: prevalga il buon accordo.

D’ora in poi in alcuni reparti dei nostri macelli potrebbe entrare – a rifornitura dei mercati del cinema di cultura sadica – anche la macchina da presa. Ne conseguirebbero altri affari, ed altra calata della fronte nazionale. Sembra che questa perdita della fronte sia un bene: sempre meno riconosceremo per buono il disprezzo della civiltà europea.

Certo, dovunque l’uomo è antico, e quindi infame: i riti, o l’indifferenza, sono la sua salute, in questo mondo e nell’altro. Ma una Europa nuova c’è, un mondo moderno esiste, che vede l’infamia, e preferisce salvare la sua fronte a costo della sua salvezza finale. Ricordo a questo proposito una donna: sette-otto anni fa parlò alla televisione, una buona mezz’ora, parlò di quanto aveva fatto (o cercato di fare) a favore degli animali a Parigi. Come visitò i macelli, e si oppose. Cosa fece – e forse ottenne – a favore delle piccole foche canadesi. Era stata, ed era ancora, una donna famosa per beltà e paganesimo. Era adesso un ministro della natura, la mente più alta e più giovane della Francia. (Nome: Bardot, e questo nome la gente non lo dimentichi!).

La natura, si dice, è stata fatta per l’uomo, e gli animali per imbandire la mensa del migliore, dell’Immortale. In nome di questa discriminazione, delitti innominabili, privati, religiosi, di massa, a scopo di gioco e di nutrimento, vengono commessi ogni giorno, da millenni, dalle atroci mani dell’umanità. C’è a questo proposito tutta una informazione storica, ma è dispersa qua e là; e una informazione popolare, o di mercato: ma è sotto i nostri occhi, e per questo non la vediamo.
Quando si sente parlare di diritti della vita, sempre il cuore di taluni è in ascolto. Si vorrebbe – una volta sola nella storia umana – sentir parlare dei diritti del vitello e l’agnello. Ma non ci sono. Agnelli e vitelli e tante altre specie della misteriosa e non delittuosa vita animale non hanno diritto al diritto. Di questi esseri muti che sono gli animali, si può fare ciò che si vuole. Ogni giorno è prigione, ogni alba è massacro, ogni esecuzione è l’inferno. Ho immagini che non oso più guardare, pubblicate, fino ad anni fa, con scandalo: la morte del lupo in gabbia, a disposizione dell’aguzzino abruzzese, l’agonia del cane in un laboratorio a conduzione familiare. Sembrava il peggio. Tre mesi fa un giornale ligure pubblicò la prima foto (credo) di un capretto legato e intento a versare il suo sangue. A edificazione della vita domenicale, perché il giornale uscì proprio di domenica.

La fronte va sempre più giù. L’orgoglio, al contrario, sale. Siamo i migliori. Vitali, qualche peccatuccio, certo, ma guardate la salute, guardate la cura con cui rimpinguiamo l’industria farmaceutica, e la ricerca scientifica, in ogni luogo! Come non abbiamo scrupoli quando si tratta di rifornire la mensa, e avvezzare il neonato a nutrirsi con ingordigia di un altro neonato. E la chiesa sopravvive! Chi, a Pasqua, non si nutre (siamo più larghi, noi cristiani) della carne e anche il sangue del piccolo agnello? E qualcuno mai non è stato attratto dalla agonia del maiale? Perfino grandi registi. Ciò rende uomini. Patrioti in qualche caso.

Uomini, va bene. Patrioti anche. Ma senza fronte. Scrivete libri, sparate, parlate male del fascismo, difendete diritti! Ma fate uno sciopero, perdio, a proteggere i macelli dalla scimitarra e dai mercati. Assalite i laboratori a conduzione familiare. Fate pagare cara, al signore con macchina, diretto a questa bella estate, l’abbandono, sull’autostrada, del cane.

Questi cavalli e bovini che viaggiano assetati, stremati, in vagoni chiusi, verso la morte, che fanno udire il loro grido alle stazioni isolate, non vi ricordano niente? Via i lager nazisti e russi, naturalmente, ma i vostri sono veramente immortali?

Gli dei non sanno parlare, scoperse Borges. Noi abbiamo troppi dei, il primo è l’uomo. Perciò non sappiamo più parlare. Durerà ancora? Fin quando splenderà il sole e il pianeta riceverà la grazia, ogni giorno, dell’alba? E la meritiamo, questa grazia? Andiamo, vediamo un po’ chi siamo.
Parlerà l’agnello, un giorno! Griderà il cane. Non vedremo più uccelli. Le nostre azioni, ormai di massa, la tortura senza più freno, stanno disponendosi contro di noi, e avanzano. Non parlo qui di nubi nel cielo. Il cielo non è solo a disposizione dell’uomo. Ma la cosa che chiamavamo umanità e civiltà, e pura ragione – e anche tutte le bandiere e le cattedrali –, solo dall’uomo dipendevano. E dalla sua fronte! Ora budella e salvezza vivono insieme! Chi ci riporterà la nostra fronte?
Siamo salvi, e sazi. Ma dov’è la nostra fronte?
Borghesi, A. (2016). Anna Maria Ortese: in difesa degli animali. Un giorno l'agnello parlerà. DOPPIOZERO.
 http://www.doppiozero.com/materiali/un-giorno-lagnello-parlera




[...] L’opera chiave resta il romanzo breve L’Iguana (del 1965): tenera e misteriosa favola, e allo stesso tempo smascheramento del romanzo esotico-ispanoamericano che viveva in quegli anni il suo boom.
Adelphi meritoriamente ripubblica le vecchie opere. Tra queste L’Iguana, che 1988 appare anche in francese, presso Gallimard. [...]
http://www.ilpostodelleparole.it/angela-borghesi/angela-borghesi-le-piccole-persone/



Anna Maria Ortese e gli animali
Perché guardiamo gli animali?
È la domanda che ci pone il libro (Why Look at Animals?, 2009, di recente tradotto in italiano per il Saggiatore), in cui John Berger ha riunito i suoi scritti sul rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Gli animali, osserva Berger, sono entrati nel nostro immaginario «come messaggeri e come promesse»; ma da quando abbiamo smesso di considerare la loro esistenza parallela e autonoma rispetto alla nostra, quella funzione originaria è esaurita. La sottomissione degli animali ne ha spezzato il legame dualistico con l’uomo, alterando l’equilibrio tra venerazione e controllo.

Berger non è il solo scrittore che, negli ultimi anni, ha riflettuto sul valore della vita animale, in sé e come paradigma della relazione individuo/società: da Coetzee a Foer e Franzen, il tema ha guadagnato una presenza crescente nella letteratura, divenendo anche oggetto di una corrente critico-teorica, gli Animal studies, già molto diffusa in ambito nordamericano. Anche nella letteratura italiana contemporanea ci sono esempi che si prestano a un’interpretazione di questo genere: limitandosi ai classici novecenteschi (ma non mancano casi più recenti, da Laura Pugno a Giordano Meacci), si possono citare Tozzi, Calvino, Volponi, Primo Levi. A questi nomi si aggiunge quello di una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento, Anna Maria Ortese (1914-1998); il tema del distacco tra uomo e natura attraversa specialmente le sue ultime opere (da Il cardillo addolorato ad Alonso e i visionari e Corpo celeste), fino alla raccolta d’interventi sul tema che esce ora a cura di Angela Borghesi: Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, Milano, Adelphi, pp. 271, euro 14,00.

Il volume comprende trentasei pezzi, tredici dei quali già apparsi a stampa ma finora mai raccolti; i restanti, selezionati dalla curatrice tra i materiali del Fondo Ortese presso l’Archivio di Stato di Napoli, risultano inediti. Non datati, i testi sono perciò organizzati nel libro in base a un criterio tematico: la prima parte – chiarisce la Nota al testo – accoglie quelli «d’ampio respiro filosofico-naturalistico, di critica culturale e di costume, o di carattere documentaristico-memorialistico»; la seconda i testi «d’impronta militante», percorsi cioè da più accesi sentimenti animalistici.

Il rapporto di uno scrittore adulto con la «Natura», osserva Ortese nello scritto d’apertura (Ma anche una stella per me è «natura»), è segnato dallo scetticismo con cui l’uomo ripensa alle illusioni del bambino; ma senza la coscienza del distacco, senza la «memoria di una ferita ormai indimostrabile», non si può scrivere: perché la scrittura è «cercare ciò che manca». È una tensione quasi leopardiana (Leopardi è uno dei riferimenti impliciti ma più presenti sullo sfondo di questi scritti), che si precisa di brano in brano, passando da una prospettiva più lirica a una più storica (il doppio regime interessa anche lo stile, più concreto e diretto negli scritti ulteriori, specialmente in quelli della seconda parte). [...] il rapporto con la natura e la sua rappresentazione delimitano infatti lo spazio privilegiato da cui guardare e giudicare la letteratura e la società italiane: «Nella narrativa non è mai presente il piccolo né l’interiore. È come se la vita italiana, dall’inizio della sua storia, fosse una lunga e barbarica tavolata, piena di cacciagione o vini pregiati, o anche semplici patate o rape, […] ma, insomma, natura morta. Una immensa natura morta e niente più» (Piccolo e segreto).

Come altri scrittori italiani del secondo Novecento, Pasolini in particolare, Ortese osserva e interpreta i cambiamenti occorsi nella società, nel paesaggio materiale e morale dal Dopoguerra, in chiave etologica: la violenza esercitata contro la natura e soprattutto contro gli animali è il riflesso dello «spirito che invase l’Italia tra il Cinquanta e il Settanta […], uno spirito di volgarità, per prima cosa, e di perversità, come conseguenza». Così scrive in Ferocia e mollezza, due termini che definiscono emblematicamente lo scadimento dell’etica nazionale, specialmente il primo: di «immortale ferocia» parla infatti anche in Al rallentatore (viene da pensare alla fortuna recente che la parola, in una prospettiva non dissimile, ha conosciuto grazie al titolo dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia).

Anche ‘perversità’ è parola ricorrente negli scritti di Piccole persone; Ortese la usa per spiegare la ragione che le fa apparire i delitti contro gli animali più gravi di quelli contro gli esseri umani: «il loro orrore» è «nella perversità» (Il secolo della crudeltà). È qui, in un confronto di questo genere, che si delinea il punto di vista dell’Ortese animalista, al centro, come si è detto, dei testi raccolti nella seconda parte del libro. I massacri degli animali corrispondono a quelli perpetrati dall’uomo contro i propri simili; la distruzione dell’habitat di altre specie è equiparata ai roghi dei villaggi nella «terribile guerra». L’idea che ognuno perseguiti i più deboli secondo la propria forza è autorizzata da grandi modelli, anche letterari: i capponi agitati da Renzo subiscono l’arbitrio e la violenza che, su altra scala, patiscono gli stessi protagonisti del romanzo. Ma Ortese si spinge fin dove senso storico e morale consiglierebbero di non andare, proponendo l’equivalenza tra il dolore inflitto agli animali e quello subito dalle vittime del lager: tutto il male «che un certo stato europeo, venticinque anni fa, rivolse all’uomo, inflisse all’uomo europeo: deportazioni, viaggi nei vagoni piombati, inumano isolamento», adesso è inflitto agli animali, in Italia e in altri paesi (Il criminale prudente). «Provate ad andare in Lager…»: così Primo Levi, che pure ha riflettuto sulla sofferenza inflitta agli animali in Contro il dolore, rispondeva quando le sue Storie naturali venivano lette come adattamenti fantastici della Shoah.
Ortese prevede lo scandalo delle sue parole, anticipa le obiezioni, denuncia il ricatto morale; ma le sue posizioni, «certo discutibili, ingrate e radicali» scrive Angela Borghesi nel fine e partecipe saggio conclusivo «la consegnano all’isolamento, all’incomprensione dei più». Tuttavia certe espressioni – spiega ancora Borghesi – sono il prodotto di «un cumulo d’anni di rabbie gridate o represse, d’impegno misconosciuto, di scrittura ossessiva». ‘Ossessione’ è la parola che meglio definisce, in due sensi, gli scritti della seconda parte del libro. Da una parte, l’ossessione dell’autrice per i suoi argomenti (molti dei quali sacrosanti: contro la caccia, per esempio, e contro il folklore cruento della corrida, che nessun valore simbolico basta a riscattare). Dall’altra parte, l’ossessione suscitata nel lettore, che di pagina in pagina sempre più si sente tratto nell’inferno degli animali. Al netto delle critiche (anche sull’ambiguità di certe idealizzazioni: «La vita è buona. Alberi e bestie sono buone», un «cane è un angelo»: Una sentenza della Corte di Cassazione), perciò, Piccole persone è un libro che impressiona e che ammonisce al rispetto verso coloro con cui condividiamo una dimora, l’Umwelt, in senso biologico e sociale.

Niccolò Scaffai, 24 maggio 2016

http://www.leparoleelecose.it/?p=23101


Anna Maria Ortese, L'Iguana. Capitolo I.
Come tu sai. Lettore, ogni anno, quando è primavera, i Milanesi partono per il mondo in cerca di terre da comprare. Per costruirvi case e alberghi, naturalmente, e più in là, forse, anche case popolari; ma soprattutto corrono in cerca di quelle espressioni ancora rimaste intatte della -natura-, di ciò che essi intendono per natura: un misto di libertà e passionalità, con non poca sensualità e una sfumatura di follia, di cui, causa la rigidità della moderna vita a Milano, appaiono assetati. Incontri con gli indigeni, e la cupa nobiltà di questa o quella isola, sono tra le emozioni più ricercate, e se ti viene in mente che emozione sia un traguardo inadeguato alle vaste possibilità del denaro, rifletti sulla stretta corrispondenza tra grandezza economica e indebolimento dei sensi, per cui, al massimo del potere di acquisto, si ha non so che ottundimento, che generale incapacità di discernere, di gradire; e colui che, ormai, potrebbe cibarsi di tutto, non gusta più che poco o niente. Allora, di certi forti sapori (che poi non sono affatto forti, anzi banalissimi), va a caccia, e darebbe la vita per quelli. Non è forse il caso della maggioranza dei Milanesi, che, stretti dalla vita aziendale, ancora non hanno viaggiato né visto niente, e, in più, hanno curiosità rudimentali; ma certo che una minoranza, quella, infine, che dà lustro alla città, è fatta così, e non si deve pensare, tuttavia, che manchino in mezzo ad essa elementi ingenui, puri, raziocinanti, il meglio, insomma, dell'antica Lombardia. Tutt'altro. Don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei Duchi di Estremadura-Aleardi, e conte di Milano, casata, come appare evidente, di origine per due terzi svizzero-iberica, e non pertanto il più allegro e buon lombardo che si possa dare, era di questi. Sui trentanni, ormai, figlio unico, rimasto ancor giovanissimo, a causa della morte del padre, il buon conte Aleardi, padrone di una estesa sostanza, oculatamente amministrata dalla contessa madre, associava la passione della vela, e una indistinta idealità, che venivagli dal padre, a una meno indistinta per quanto involontaria attenzione ai precisi e macchinosi interessi materni che prevedevano per il giovane, nei prossimi anni, una sempre più serrala e progressiva moltiplicazione di quei beni (ch'erano in case e terreni); e partiva perciò ogni primavera in cerca di terre, dove lui. eh "era architetto, avrebbe costruito poi ville e circoli nautici per la buona società estiva di Milano. (...)
Non si era ancora sposato, né. malgrado le pressioni della contessa madre, che aveva già visitato alcune cospicue famiglie svizzere, pensava di farlo, in quanto gli sembrava che ciò lo avrebbe limitato... in che cosa, poi, non si sa. Conduceva la vita più semplice, quasi monotona, che si possa dare, vera vita di certosino: tutto il giorno in studio a disegnare case come un bambino, mentre, la sera, sua unica distrazione era vedersi con Boro Adelchi, un giovane editore della nouvelie vague, ambiziosissimo e ancora nei guai, cui il Daddo, sia detto fra parentesi, passava continuamente, di nascosto della madre, fior di denari.
E fu proprio l'Adelchi, una di quelle sere di aprile, che Milano è tutta verde, tutta delicata, e la Via Manzoni sembra non finire mai, a gettare il seme dell'avventura che narriamo. Disse dunque il Boro Adelchi, un po' pensierosamente:
• Sì, le cose non vanno male... ma ci vorreblie qualche cosa d'inedito, di straordinario. La concorrenza è forte... Tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti qualcosa di primitario, magari d'anormale? Tutto è già scoperto, ma non si sa mai... tutto può darsi...-.
Ci vorrebbero le confessioni di un qualche pazzo, magari innamorato di una iguana - rispose il Daddo scherzosamente, e come gli fosse venuto in mente non si sa. Ma subito tacque, pentito di quel suo prendersi gioco della malattia e della animalità, due cose per le quali, pur non avendone alcuna esperienza, provava, come molti Lombardi, una pietà grandissima. I...I


Capitolo 3
Grande, a questo punto, fu la sorpresa del Daddo, nell'accorgersi che quella che egli aveva preso per una vecchia, altri non era che una bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un grembialetto fatto di vari colori, giacché era la somma evidente di tutti i cenci della famiglia. In testa, a nascondere l'ingenuo muso verdebianco, quella servente portava una pezzuola anche scura. Era scalza. E sembrava, benché quelle vesti, dovute a uno spirito puritano dei padroni, la impacciassero non poco, adatta a svolgere tutti i mestieri con una certa sveltezza. In quel momento, però, sembrava proprio non farcela. Una delle sue verdi zampette era fasciata, e con l'altra, sospirando intensamente, essa si sforzava invano di tirare su dal pozzo un grosso secchio.
Immediatamente il Daddo, con quello spirito di cavalleria che lo rendeva così amabile, senza perdere tempo a chiedersi, come avrebbe voluto la religione che egli professava, se quella creatura era cristiana o pagana (come più sembrava), si precipitò accanto alla bestia, che gli levò in volto due occhietti supplichevoli e fantasticanti, mormorando -mentre il conte prendeva lui il secchio:
• Grazie o senhorì, Grazie!-.
• Non c'è di che, nonnina!-.
•Sì, il raffio si è guastato- osservò don Ilario, che non appariva affatto preoccupato dall'impressione che una tale servente poteva fare sul forestiero; e bastò questo accento tranquillo, e privo in modo assoluto di imbarazzo o di pena, a persuadere il Daddo che non vi era in quella "vecchietta" nulla di meraviglioso; o, se per caso vi era, faceva parte della normalità del mondo, che esso stesso (dato che all'inizio non era, e poi è stato, e non si vede chi o che casa l'abbia originato) era abbastanza enigmatico. In ciò lo aiutava moltissimo quel suo spirito estatico, che dappertutto, nel meccanismo della natura, scorgeva un'anima uguale, e avveniva un appello alla propria fraternità. Si aggiunga che vi era effettivamente, nella creatura, un che di umile, di pensieroso.
da L'iguana, Adelphi, Milano, 2003
file:///C:/Users/SIA_01/Downloads/01_Iguana_Ortese.pdf

Una complessa trama allegorica
La creatura a metà tra l'uomo e l'animale (al centro anche di un'altra opera dell'Ortese, Il cardillo innamorato) è allegorìa di duplice significato, a seconda che si interpreti come immagine dell'uomo trasformato in animale o dell'animale trasformato in uomo: nel primo caso rappresenta la bestialità, l'incarnazione del male (qui, in particolare, la donna-iguana sembra richiamare la donna-serpente della tradizione cristiana, cioè la donna tentatrice e fonte di peccato, assimilata al serpente tentatore dell'Eden); nel secondo, simboleggia l'innalzamento della natura allo stesso grado di nobiltà dell'uomo, contro la sua pretesa di superiorità. Per il suo aspetto ambiguo e mostruoso, inoltre, rappresenta ciò che agli occhi della cultura e delle istituzioni ufficiali è considerato diverso, folle, peccaminoso e, perciò, oggetto di esclusione e oppressione (l'iguana, un tempo apprezzata dal marchese, è stata poi ridotta a fare la sguattera e a vivere miseramente): è dunque simbolo dell'opposizione natura/cultura che caratterizza tutto il percorso della modernità. Ma il riscatto finale dell'iguana, che si trasforma in donna grazie al sacrificio e alla morte di Daddo, potrebbe alludere anche all'umanità redenta da Cristo; nella triste condizione dell'iguana, poi, non è difficile cogliere un riflesso autobiografico della solitudine e delle sofferenze che hanno accompagnato tutta la vita dell'Ortese.

La morale della favola
Temi ricorrenti nell'Ortese, e in qualche modo sintetizzati nella storia di Estrellita, sono quelli della natura, del paesaggio, della pari dignità di ogni creatura vivente, della polemica contro il gretto antropocentrismo nella moderna variante del materialismo consumistico (ben rappresentata dalla tipologia del compratore di isole, titolo della prima parte del romanzo), dell'attenzione alle vittime delle violenze e delle discriminazioni che caratterizzano la società odierna. La morale della favola, dunque, sembra consistere in una crìtica radicale alla logica della conquista materiale che è alla base della civiltà moderna. Non è forse casuale che il viaggio di Daddo si compia nel Mediterraneo, più o meno sulla rotta di quello dell'Ulisse dantesco, simbolo supremo delle velleità di conquista del mondo occidentale. Il benessere, frutto ambitissimo del falso Eden della modernità, produce ottundimento di sensibilità e di moralità: questo concetto, posto non a caso in premessa di romanzo, ne è il principale fondamento teorico: c'è una stretta corrispondenza tra grandezza economica e indebolimento dei sensi, per cui, al massimo del potere di acquisto, si ha... ottundimento, generale incapacità di discernere, di gradire; e colui che. ormai, potrebbe cibarsi di tutto, non gusta più che poco o niente.


Compassione cristiana, leggerezza e ironia
La soluzione dell'Ortese sembra essere quella di un Cristianesimo puro e sostanziale, fondato sulla "compassione" autentica. Si vedano i sentimenti di Daddo verso l'iguana: nota la "mostruosità" di Estrellita, ma non vi dà peso; dà importanza invece alla sua sofferenza, alla sua derelitta condizione di serva, ed instaura subito con lei un rapporto di tipo affettivo (si notino i di minutivi-vezzeggi alivi bestiola, sottanina, grembialetto, pezzuola, zampette ecc.), mostrando un autentico spirito di cavalleria (righe 49-66). Senza alcun moralismo severo e serioso, tuttavia, bensì all'insegna della leggerezza (come suggerisce la stessa scelta del genere della favola) e dell'ironia, subito in primo piano nell'attacco metanarrativo del romanzo (Come tu sai. Lettore...) e nella presentazione del modo di vivere e di pensare dei Milanesi (righe 1 -6); ironica è l'enfatizzazione dei nomi e dei titoli del protagonista (riga 18); comicamente ironico è lo spirito puritano dei padroni che impongono all'iguana di vestirsi (riga 55), ecc.
Lo stile, molto personale, tende ad un'armonica complessità di tipo classico. I periodi sono lunghi (cfr. ad esempio riga 20 e segg.: da Sui trent'anni...) e di struttura ipotattica, con molti incisi, inversioni di costrutto e iperbati: Allora, di certi forti sapori (che poi non sono affatto forti, anzi banalissimi), va a caccia (riga 12), Don Carlo [...] era di questi (righe 18-20) ecc.; il lessico ostenta (ironicamente) forme colte: nonpertanto, venivagli, primitario ecc.

Comprensione
1. Riassumi il brano.
Analisi e interpretazione
2. Che cos'è un'iguana e che cosa rappresenta in questo romanzo?
3. Chi è Daddo e quali sono le sue passioni?
4. Come è vestita l'iguana? Per chi o che cosa l'aveva scambiata Daddo?
5. Definisci lo stile e la lingua di Anna Maria Ortese facendo precisi riferimenti a questo testo.
Approfondimenti
6. Rileggi il brano e le relative Linee di analisi testuale. Quindi tratta sinteticamente il seguente argomento, corredando la trattazione con opportuni riferimenti al testo:
La favola dell 'iguana e la sua morale.
7. Uno dei temi ricorrenti nell'opera della Ortese è quello del potere della parola, della scrittura, capaci di fare chiarezza nella vita dell'uomo, di rispondere alle sue ansie e ai suoi interrogativi, di curarne le angosce. Ecco che cosa ha affermato l'autrice dell'Iguana a proposito della scrittura:
Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente , cioè solo per sé , rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando — per ragioni pratiche — è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.
Commenta le affermazioni della scrittrice ed esprimi le tue considerazioni alla luce della tua personale esperienza.
file:///C:/Users/SIA_01/Downloads/01_Iguana_Ortese.pdf

L'iguana e la bestia di Anna Maria Ortese - Benedetta Sonqua Torchia
 «(…) Un brav’uomo va in un’isola - è molto ricco e può andare dovunque - e conosce un mostro. Lo prende come cosa possibile, e vorrebbe reintegrarlo - suppone ci sia stata una caduta - nella società umana, anzi borghese, che ritiene il colmo della virtù. Ma si è sbagliato: perché il mostro è un vero mostro anzi esprime l’animo puro e profondo dell’Universo di cui il signore non sa più nulla, tranne che è merce».
Così Anna Maria Ortese riassume le vicende de L’Iguana.

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Le parole si trovano tra gli scritti raccolti in Corpo Celeste ed è lì che svela e racconta anche la necessità e l’urgenza di mettere in discussione la superiorità dell’uomo sulla natura e il rapporto tra intelligenza umana - troppe volte strumento in mano a una singola porzione di mondo - e ragione universale, garante della dignità del creato.
L’Iguana è quel confine fragile tra umanità e bestialità dell’uomo e nell’uomo.
Oggi, a cinquanta anni dalla pubblicazione, è ancora un libro difficile che porta con sé qualcosa della fecondità della matrioska e del mistero delle scatole cinesi e, sarà per tutti i significati annidati nel testo, che poco si presta a una lettura leggera o alle estrapolazioni e alle sintesi degli aforismi. Anna Maria Ortese non ha mai venduto né molto, né a tutti, eppure, quando ci si imbatte ne L’Iguana, non ci si riesce più a disincagliare da quel porto dove la poesia e i rimandi autobiografici coincidono nella favola e nella storia del suo protagonista: «(…) sentì che il suo viaggiare era stato immobilità, e ora, nella immobilità cominciava il vero viaggiare. Sentì poi che questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società. Questa società egli aveva espresso, ma ora ne usciva. Di ciò era contento».
Architetto senza troppe doti che lo facessero brillare nella società della Milano da bere e per bene, il conte Carlo Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di Estremadura, detto Daddo, viene inviato per mare, dalla madre, a cercare terre su cui speculare. Il viaggio, in questa storia, è un atto di conquista. Nessuna curiosità filantropica, solo espansione di un modello economico che tende a moltiplicarsi per rafforzarsi.
A giustificare il viaggio, si aggiunge anche la sfida lanciata dall’amico editore Adelchi circa la possibilità di scovare un manoscritto inedito che possa destare un qualche interesse tra i lettori annoiati e sempre alla ricerca di amenità: «(…) tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti qualcosa di primitario, magari d’anormale» come, ad esempio, le vicende di un pazzo che si innamora di una Iguana. A neanche venti pagine dall’inizio, i crinali delle politiche editoriali e dell’industria culturale e del turismo appaiono così: crudi e semplici come la cronaca di un quotidiano assodato, impossibili da rovesciare ma da cui è necessario deviare. La narrazione non denuncia, piuttosto è constatazione. Tutt’altro che disperante, trova consolazione in logos inusuali (come cantine, lavatoi, pegni d’amore di nessun valore, vezzeggiativi e colori cangianti) e si serve di una grammatica capace di moltiplicare i contenuti esplodendoli in mille sottotesti: nelle parentesi, negli incisi e nelle numerose subordinate. Per dirla breve, L’Iguana è difficile perché è un libro densissimo.
Ogni descrizione è minuta e serve al racconto ma prende anche in giro se stessa, a partire dai nomi altisonanti ridotti a nomignoli o dalla descrizione di alcuni paesaggi, lirici e subito stucchevoli, ridotti a essere i fondali di una atmosfera da acquario. Ogni elemento che si somma alla trama mette il lettore in allerta. Lo invita a cercare l’errore, ad attendere un rovesciamento di senso, a capire perfino, a volte, quale sia l’eroe e l’antieroe.
Daddo si imbarca e si imbatte in un’isola sconosciuta a forma di corno, Ocaña, una volta fastosa e splendida, oggi abitata da don Ilario Jimenez della casata dei Guzman, insieme con i due fratellastri, Hipolito e Felipe. Ilario, un giovane (almeno così appare all’inizio) bibliofilo appassionato letterato, si muove tra le quinte di giardini trascurati, palazzi in cattivo stato, soffitte polverose e sogni tenuti nel cassetto troppo a lungo per essere davvero desideri. Cerca di distrarsi dalla decadenza della sua condizione e dall’abbrutimento cui sembrano condannati i fratelli (quasi del tutto privi di parola, almeno all’inizio) con lo studio e l’esercizio delle lettere (almeno all’inizio).
A sparigliare tutto quello che è ancora plausibile compare un mostro, inerme e innocuo; una «bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna». Insieme all’iguana prende piede un’inquietudine - nel lettore - prima ancora che nel protagonista, «la sensazione costante di trovarmi in un luogo ignoto, non mio assolutamente, e della cui serenità sono anch’io, in qualche modo responsabile». (da Corpo celeste)
L’iguana, Estrellita, diventa il simbolo di quegli umili di cui le classi più abbienti dovrebbero assumerne il carico e la responsabilità civile prima che morale. Cattura le attenzioni di un Daddo talmente sensibile da mutare la sua curiosità in amore. Egli, a sua volta, a tratti ridicolo ma forte della sua posizione sociale, del suo sentimento e delle sue ragioni, vuole salvare l’animale sposandolo e conducendolo a Milano. Ma quella stellina non vuole essere salvata, né vuole abbandonare l’isola, né vuole sposare Daddo. L’iguana intrepreta la sua bestialità rassegnandosi alla deprivazione e alla subalternità e continua a struggersi per il marchese Ilario.
La mostruosità della relazione tra uomo e bestia viene assunta come un fatto possibile. Di contro, un’ombra gigantesca aleggia di continuo: la ricerca di un senso di tutte le cose che accadono in questa storia. Una ricerca che quasi mai ha un esito positivo ma che implica lo sforzo - troppo spesso eluso dalle figurine che compaiono nel romanzo - di essere presenti a se stessi e, soprattutto, di voltarsi indietro a rileggere la propria storia. Tutto, invece, sembra spinto avanti da un unico desiderio: non soffrire più, anche a costo di desiderare niente di diverso da quello che le convenzioni dettano: «una coscienza decapitata, ecco la nostra coscienza umana». L’iguana si rassegna alla subalternità, Daddo si rassegna a viaggiare spinto da fini merceologici e speculativi. Ilario si rassegna al suo isolamento. Ocaña, l’isola, non è un paradiso, ma un giardino in cui tutti sono caduti e decaduti. «La caduta avviene quando la cultura smette di essere luogo di memoria e smette di essere eterna aratura e diventa raccolto. Il raccolto solo, subito gratis e per sempre.» (da Corpo celeste): è quanto dimostra lo sbarco sull’isola della famiglia Hopins. L’arrivo, insospettabile per il lettore ma atteso dai fratelli Guzman, rompe il corso degli eventi in una direzione inattesa: la famiglia americana - come i capitali stranieri che negli anni Sessanta sbarcavano in Europa per finanziarne i progetti industriali - è interessata alla acquisizione dell’isola e del titolo nobiliare. Ilario è destinato al matrimonio con la figlia bionda, silenziosa, affascinante e un po’ scialba. Per Daddo sfuma il suo mandato affaristico; gli rimane ancora aperta la seconda sfida, quella di trovare un manoscritto su un pazzo innamorato di una iguana.
Se, fino all’arrivo degli Hopins, è possibile conservare ancora qualche incertezza, con l’arrivo dell’arcivescovo «nero» al seguito degli americani, tornano forti le gerarchie e le categorie della cultura dominante e svaniscono i dubbi: per l’alto prelato, l'iguana è l'incarnazione del male. Estrellita, che si racconta fosse stata trattata come «gentile e affascinante figliolina», è messa al bando e, come «un vero serpente», viene estromessa dal paradiso e dal circolo degli affetti umani. La solitudine diventa dannazione: Ilario vuole sposarsi e abbandonare l’isolamento e l’isola; Daddo, invece, vuole salvare l’iguana. Dunque, pare che il libro da proporre all’amico milanese Adelchi, per incrementare il mercato editoriale, sia proprio quello che stiamo leggendo.
Il dramma è che non si riuscirà mai a dire per davvero perché e cosa amassero Ilario o Daddo nell’Iguana se non ad ammettere che quando si ama, si ama tutto, anche la bestialità altrui. Non c’è niente di male ad amare una iguana perché il male non deriva dalla deprivazione (economica) ma «è solo quello recato per una errata valutazione - lo sbaglio - a se stessi». E spesso lo sbaglio è pensare che tutto - anche un amore - possa essere sostituito non appena termini la sua funzione: la scimmia Perdita ha distolto Ilario dalla madre; l’iguana lo ha distolto dalla morte della scimmia; a sua volta, l’iguana viene sostituita dalla nuova moglie con la promessa di un engagement sociale. Privo di qualsiasi dimensione sentimentale e del tempo psichico necessario alla elaborazione, questo passaggio per Ilario non è altro che l’esemplificazione dell’uso e della funzione materiale della rappresentazione amorosa. L’illusione che cercare sempre qualcosa di nuovo (rispetto al noto) possa garantire la felicità è la menzogna diffusa contro cui la Ortese si scaglia. È in questa continua sostituzione, e dietro questa strana storia d’amore e di pena che lega più uomini a una iguana, che trova espressione la critica profonda al sistema capitalistico; in fondo, «ciò che abbisogna. Ecco ciò che è reale».
La cosa strana è che - arcivescovo a parte - niente o nessuno sembra mai lo stesso. È tutto un guardare, un sentire e poi voltarsi al passato per essere certi di essere ancora gli stessi ma senza una reale consapevolezza di ciò che si è diventati. Un delirio in cui reale e irreale si fondono nell’incantesimo dei luoghi e delle situazioni. Anche i personaggi cambiano carattere, età, aspetto: non si è mai sicuri se a tratteggiare le prime figure abbiano contribuito le reminiscenze dei romanzi dell’ottocento inglese o del romanticismo tedesco o sia stato un trucco della Ortese per continuare a viaggiare sull’isola senza alcun punto di riferimento. Anche l’iguana si trasforma in vecchina, giovinetta, domestica, amante, aguzzina ma, incurante, continua a mostrare l’anima bestiale e irrazionale del suo essere primitivo e per questo comunque amabile. «Inaudito» dirà del libro Pietro Citati a vent’anni di distanza dalla prima edizione ed è ancora così, anche cinquanta anni dopo.
Sul finire, Daddo inciampa nei suoi deliri e muore affogando in un pozzo. Eppure, morto il protagonista niente è perduto, anzi. In fondo, se (e avviene a circa metà del libro) si assiste al processo che sanciva la morte di Dio e il mondo è rimasto in piedi, la morte del protagonista non chiude le vicende, piuttosto ne sblocca la loro evoluzione, fino alla fine che, nel paradosso, è quasi un lieto fine per tutti tranne che per chi è morto e non esiste più.
Conan Doyle scriveva che «togliendo l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità». Ecco, l’Ortese fornisce gli elementi per ridurre l’impossibile, incastonandolo nelle questioni del quotidiano e ricorre alla dimensione fantastica per rendere lecito tutto ciò che è possibile anche quando improbabile, come trovare una iguana innamorata su un’isola.
Con L’Iguana si cade (esattamente come accade per l’Alice di Carroll). La caduta porta al centro del mondo e dei suoi meccanismi pur essendo, di fatto, alla sua estrema periferia. Una sorta di gentifrication letteraria e ante litteram dove la periferia è un’isola portoghese che si «muove impercettibilmente». Una sorta di simbolo posto al di là delle classiche colonne d’Ercole, oltre le quali si trova ancora qualcosa di centrale per la ragione dell’Uomo, come il dolore di un amore non ricambiato e l’ingiustizia agita nei confronti degli altri.
L’iguana era una sfida; una sfida persa, come lei stessa racconta - avendo venduto 1990 copie nei primi cinque anni.
Era una sfida difficile, lanciata dai bordi del mondo, lì dove stava lei e da cui, come Daddo, esercitava quel sentimento sottile e doloroso che è il rispetto dell’altrui dignità. Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare sulla dimensione onirica, sullo straniamento, sugli inviti al lettore, l’unica cosa sensata da dire è che L’Iguana affronta temi oggi ancora irrisolti, come i rapporti di forza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento, l’assenza di dignità e amore che conducono alla morte e all’esilio, la menzogna dell’autoaffermazione a qualunque costo come formula per raggiungere livelli di godimento sempre più vicini alla felicità.
«C’è molto dolore nel mondo, (…) perché l’irreale - il non conosciuto - è assai più profondo. Mille ragioni, di Stato o pratiche, vi si oppongono. Non per malvagità, ma perché a quelle condizioni che mantengono il disordine su cui cresce il dolore, sono legati innumerevoli interessi, anche di cultura o vecchia cultura; quindi di autorità. Quando per esempio dai il mondo come spiegato - per così dire: naturale - ci edifichi sopra le cose degli uomini. Quando lo dai come inspiegabile, cioè innaturale e lo definisci come visione del fuggevole, ci edifichi l’uomo. Non è una differenza da poco. Edificare l’uomo è gratuito. Edificare le cose (dell’uomo e sull’uomo) porta compensi molto altri, non solo economici. Ma perde l’uomo.» (da Corpo Celeste)


Benedetta Sonqua Torchia

L’Iguana, Veronica Leffe (2015)

Bibliografia:

L’Iguana, Vallecchi (1965); Adelphi (1986, 10ª ediz.)
Corpo celeste, Adelphi (1997)

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