mercoledì 19 luglio 2017

Vasilij Grossman. Tutto scorre. non aveva più bisogno di santi apostoli, di costruttori frenetici, indemoniati, di adepti pieni di fede. Nemmeno di servi aveva più bisogno il nuovo Stato: esso non aveva bisogno che di funzionari, di impiegati

Vasilij Grossman. Tutto scorre. 


Tornare a casa dopo trent’anni di gulag e scoprire che là fuori il regime è più pericoloso che dentro. Perché adesso si chiama “dovere”.

«Solo Dante – nel racconto del conte Ugolino e dei suoi figli straziati dalla fame dopo essere stati rinchiusi in una torre – è riuscito a scrivere della morte per fame con uguale forza». 
Robert Chandler, scrittore, traduttore, tra i più grandi esperti delle opere di Vasilij Grossman, paragona le pagine più drammatiche di Tutto scorre, quelle in cui viene descritta la dekulakizzazione, al XXXIII canto dell’Inferno di Dante. Come Dante nell’episodio dell’«orrido pasto», richiamato in quelle pagine dallo stesso scrittore russo, Grossman vuole ammonire il lettore: «Se non piangi, di che pianger suoli?». È una compassione, una sorta di pietà per l’uomo, il sentimento da cui nasce Tutto scorre, l’ultimo romanzo di Vasilij Grossman. [...]

Tutto scorre è la storia di Ivan Grigor’evic che torna in libertà dopo trent’anni di lager
Dopo la morte di Stalin, infatti, il regime liberò molti detenuti nell’intento di correggere alcune cosiddette “deviazioni” del dittatore e cercando di recuperare fiducia tra il popolo e negli ambienti internazionali. Grossman, cosciente dell’inganno del regime, senza esitazione non solo non rinuncia a giudicare il passato con un’acuta originalità, ma avverte i lettori che la lotta per la libertà, dopo Stalin, deve assumere forme più attente e incisive. L’ideologia al di là del filo spinato può essere ancora più pericolosa perché prende posizione nella mente degli uomini.

Né santi né servi, ma funzionari.
In Tutto scorre l’ideologia è fotografata dal vivo, così da non destare mai nel lettore l’atteggiamento del giudice. Ciò che porta alle scelte ideologiche, ai giudizi standardizzati, alla rinuncia della propria personalità, è un processo che, con lo sguardo dell’autore russo, possiamo scorgere nelle discussioni di tutti i giorni. Perché gli uomini rinunciano ad un giudizio originale e ripetono un giudizio dato dal “capo? Grossman non ha dubbi: per una “affermazione di sé” (pagina 49). 

Mettere in dubbio ciò che dice la persona che in quel momento ha il potere vuol dire mettere in crisi se stessi, il proprio potere, il proprio ruolo nel mondo, piccolo o grande che sia. Vuol dire rischiare di “perdere la fiducia” di una persona o istituzione che ti afferma, vuol dire contrastare un “senso del dovere” che ogni appartenenza richiede, vuol dire non cedere a una sorta di illusoria paternità sotto la quale l’uomo “acquisisce forza”. 
http://www.tempi.it/abbronzatevi-con-questo-tutto-scorre-di-vasilij-grossman#.WW-CyBXyjIV



E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. […]. Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin” (p.33).


Era assurdo adesso […] inorgoglirsi di quello di cui si era sempre inorgoglito: di non aver mai fatto delle denunce; che, convocato alla Lubjanka, si era rifiutato di dare informazioni compromettenti su un collega arrestato; che incontrando per strada la moglie di un compagno deportato, non si era voltato dall’altra parte, ma le aveva stretto la mano, informandosi sulla salute dei bambini.
Cosa c’era da inorgoglirsi…” 
(p.37)


Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici, poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e del Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli… 
Una sola cosa la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà” 
(p.59)

Grossman descrive la posizione di molte persone che lottano contro il loro dubbio: 
«Egli credeva o, più esattamente: voleva credere; più esattamente ancora: non poteva non credere. V’era qualcosa, in questa oscura faccenda, che non gli piaceva, ma che volete: il dovere!» 
(pagina 74). 

Persino nei lager si trovavano pochissime persone che erano disposte a criticare il regime
Quando parlavano della loro ingiusta pena o delle macroscopiche ingiustizie perpetrate dicevano: «Quando si abbattono gli alberi, le schegge volano, ma la verità del partito è sempre verità, e sta al di sopra dei guai» 
(pagina 102).

Le vicende di Ivan si intrecciano nella Russia post staliniana in cui il comunismo, come ogni storia nata da grandi ideali e che teme di non reggere il confronto con l’inizio, «non aveva più bisogno di santi apostoli, di costruttori frenetici, indemoniati, di adepti pieni di fede. Nemmeno di servi aveva più bisogno il nuovo Stato: esso non aveva bisogno che di funzionari, di impiegati» 
(pagina 179).

La pseudo normalizzazione dell’Unione Sovietica, dice Grossman, non attenua, ma compie il processo di eliminazione della libertà del popolo. Diventa il perfezionamento della schiavitù che per secoli i potenti russi hanno voluto. In tale processo il genio del male, colui che ha portato il totalitarismo in Russia e in Europa, è stato Lenin, l’uomo da molti considerato puro ma che Grossman osa additare come maestro di Stalin e predecessore di Hitler

[...] Il protagonista fuori dal lager si accorge non solo della potenza dell’ideologia, ma anche della vastità della libertà. Il suo giudizio si approfondisce e diventa più lucido: 
«Un tempo pensavo che la libertà fosse la libertà di parola, di stampa, d’opinione. Ma la libertà è tutta la vita di tutta la gente» 
(pagina 96). 

durante gli anni trascorsi nei lager […] aveva appreso molte cose sulle debolezze umane, ed ora vedeva quante ce ne fossero da ambedue le parti del filo spinato” 
(p.99)


«La libertà era immortale. Nella piccola città Ivan Grigor’evic cominciò a percepire più ampio, più forte il concetto di libertà. (…) Nella battaglia per il diritto di confezionare stivali, di sferruzzare una blusetta di lana, nell’aspirazione a seminare ciò che il contadino preferiva, si manifestava quel naturale, indistruttibile desiderio di libertà insito nella natura umana» 
(pagina 106).

“Si, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio” 
(p.107)

«Eppure in quegli stessi lager, gli uomini conservano il loro amore per le mogli, per le madri; mentre le fidanzate per corrispondenza (…) erano pronte a qualsiasi tortura pur di restare fedeli al misero promesso sposo del lager, pur di credere a quella immaginaria finzione. Qualcosa si può perdonare all’uomo se, nel fango e nel fetore della violenza concentrazionaria, egli resta pur sempre un uomo» (pagina 112). 

Uno è il castigo del carnefice: lui, che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice; la vittima, invece, resterà un uomo nei secoli, per quanto tu lo distrugga” 
(p.135).


«Niente è rimasto. Dov’è andata a finire quella vita? Dove quelle orribili sofferenze? 
Possibile che non sia rimasto nulla? Possibile che nessuno paghi per tutto ciò? 
Ma allora tutto sarà dimenticato, senza una parola? (…) Come ha potuto accadere tutto questo?» 
(pagina 153).

“sta al di sopra di tutto, non v’è al mondo obiettivo degno del sacrificio della libertà dell’uomo
(p.180)

La libertà è vita, e sconfiggendo la libertà Stalin uccideva la vita” 
(p.214)


 «Felicità è spartire con te quel peso che con nessuno potrei spartire, se non con te» 
(pagina 221). 

Nel momento del trionfo più completo della disumanità, si è fatto evidente che tutto quanto è basato sulla violenza è assurdo e inutile, non ha futuro, né lascia traccia. E’ questa la mia fede” 
(p.222)


 Il vecchio maestro. 
[...] avviandosi alle fosse comuni per essere massacrati dai nazisti il maestro porta in braccio la piccola Katja chiedendosi “come posso tranquillizzarla?”. A quel punto però
“nel silenzio improvviso che era sceso il vecchio sentì la sua voce:
‘Maestro’ disse ‘non guardare da quella parte, se no ti spaventi’ 
e come una madre gli coprì gli occhi con le sue manine”.
Vasilij Grossman. Tutto scorre. 

https://nonsoloproust.wordpress.com/2011/06/22/il-bene-sia-con-voi-vasilij-grossman/




"Le donne si dimostravano più forti degli uomini, si attaccavano alla vita con più rabbia. Eppure toccava loro il peggio: è alle madri che i bambini domandano da mangiare."


"Hai mai visto sui giornali i bambini nei lager tedeschi? Identici: teste pesanti come palle di cannone, colli sottili come quelli delle cicogne, nelle mani e nei piedi potevi vedere il movimento di ogni ossicino, sotto la pelle, come son congiunti quelli doppi; lo scheletro era tutto fasciato dalla palle, tesa come una garza gialla. [...] Non erano più visi umani."



«La felicità è spartire un peso con qualcuno». 

Centro studi Vasilij Grossman – Torino


Tutto scorre di Vasilij Grossman (Adelphi) 

un romanzo che in parte si svolgeva appunto all’interno di un gulag nella regione della Kolyma.


In questo gulag ha trascorso parecchi anni il protagonista del romanzo di Grossman Tutto scorre, Ivan Grigor’evic, che torna a Mosca nel 1954, subito dopo la morte di Stalin, ma trova che i suoi amici e compagni di un tempo – che intanto si sono sistemati, hanno fatto carriera nei ministeri – lo hanno dimenticato (o meglio: si sono impegnati a dimenticarlo). Lascia allora la capitale e trova ospitalità in una cittadina del sud presso una vedova di guerra, Anna Sergeevna. I due si innamorano, ma lei dopo poco muore di cancro. Ivan allora riparte verso sud, per rivedere un’ultima volta, dopo tanti anni, la casa dei genitori, morti da tempo.

Le pagine che seguono sono tratte dal tredicesimo capitolo del libro, e sono insieme strazianti e meravigliose. Ci troviamo in un gulag femminile nella regione della Kolyma, e al centro della scena c’è Maša, una giovane donna che, insieme al marito, e senza alcun motivo plausibile, è stata accusata di tradimento della patria, e – come scrive Grossman – è sprofondata «per novemila chilometri […] fino al sepolcro della notte siberiana». Sua figlia Julja, di tre anni, le è stata tolta e messa in un orfanotrofio.

"… Tutte queste donne – pure o cadute, esauste o con sette spiriti – vivevano nel mondo della speranza. Una speranza ora sveglia, ora sopita, ma che non le abbandonava mai. Anche Maša sperava – d’una speranza tormentosa; ma la speranza permette di respirare anche quando tormenta. Dopo il regime duro dell’inverno siberiano, lungo come una condanna al lager, era arrivata una pallida primavera, e Maša era stata mandata, insieme ad altre due donne, a riparare la strada che portava alla «cittadina socialista» dove abitavano, in villette di legno, i comandanti del lager e il personale salariato.

Da lontano le era parso di scorgere, alle alte finestre, le sue tendine di quando abitava sull’Arbat, e la sagoma del ficus. Vide una fanciullina con la cartella di scuola salire i gradini del ballatoio esterno ed entrare nella casa del dirigente amministrativo del lager a regime duro. La guardia di scorta aveva detto: «Ehi tu. sei venuta a vedere il cinema?». Quando poi, alla luce del crepuscolo, tornarono al lager, verso il deposito della segheria, la radio di Magadan prese a suonare. Maša e le due donne che con lei sì trascinavano, scalpicciando nel fango, misero giù le pale e si fermarono. Sullo sfondo del cielo scolorito si rizzavano le torri di vedetta, e in esse, come mosconi intirizziti, stavano le sentinelle nei loro neri pellicciotti a vita, mentre le tozze baracche sembravano essere spuntate dalla terra, incerte se rientrarvi nuovamente.

La musica non era triste, era una musica allegra, da ballo, e Maša cominciò a piangere, ascoltandola, come le pareva di non avere mai pianto in vita sua. Anche le due donne al suo fianco – una di loro era una dekulakizzata, la seconda invece era una di Leningrado, anziana, con gli occhiali dalle lenti screpolate – piangevano, ritte accanto a Maša. E sembrava che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime. L’uomo di scorta rimase interdetto: le detenute piangevano di rado, i loro cuori erano rappresi dal gelo, come la tundra. Con una spinta alla schiena l’uomo le sollecitò: «Basta adesso, piantatela, andate a farvi fottere, donnacce, ve lo chiedo come un favore». Seguitava a guardarsi attorno, mai gli sarebbe venuto in mente che le donne piangevano a causa della radio.

Maša stessa, del resto, non capiva perché il suo cuore si fosse improvvisamente riempito d’angoscia e disperazione; come se tutto ciò che era accaduto nella sua vita si fosse unito in un solo groppo: l’amore della mamma, l’abito di lana a quadretti che le stava così bene, Andrjuša, i bei versi, il grugno del giudice istruttore, l’aurora con l’improvviso scintillio del sole sul mare azzurro, a Kelasuri, vicino a Suchum, il chiacchiericcio di Jul’ka, Semisotov, le vecchie monache, gli sfrenati litigi delle donne-uomo, l’angoscia che le veniva dal fatto che la caposquadra, socchiudendo gli occhi, aveva preso a fissare lo sguardo su Maša, allo stesso modo con cui la guardava Semisotov. Perché mai, d’un tratto, al suono allegro di quella musica da ballo ella aveva cominciato a sentire cosi intensamente sulla pelle la sporcizia della camicia, e le scarpe pesanti come rozzi ferri da stiro, il puzzo di sudore della giubba; perché all’improvviso, fendendole il cuore come un rasoio, quella domanda: perché, perché era capitato a lei, Maša, perché proprio a lei quel freddo gelido, quella depravazione spirituale, quella progressiva accettazione del suo destino di ergastolana?

La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta. Al gaio suono di quella musica da ballo Maša aveva perduto per sempre la speranza di rivedere Julja, smarrita tra gli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata, le colonie, gli asili, nell’immensa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al gaio suono di quella musica ballavano i ragazzi, nelle case dello studente e nei club studenteschi. E Maša capi che suo marito non si trovava in nessun posto, che era stato fucilato, e che lei non l’avrebbe rivisto mai più.

Ed ella rimase senza speranza, assolutamente sola… Mai avrebbe riveduto Julja, né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai. Dio, Dio, abbi misericordia di lei; Signore, abbine pietà, proteggila Tu.

Un anno dopo Maša usci dal lager. Prima di tornare in libertà essa giacque sull’assito di legno d’abete di una gelida baracca seminterrata; nessuno la sollecitava perché andasse al lavoro, nessuno la insultava; gli inservienti della baracca sanitaria distesero Maša Ljubimova in una cassa rettangolare fatta di assi inchiodate, di quelle che il reparto tecnico di controllo aveva scartato, gettarono un ultimo sguardo al suo viso – v’era in esso un’espressione di dolce estasi infantile e di sbigottimento, quella stessa con cui aveva ascoltato, nei pressi della segheria, quella gaia musica, dapprima rallegrandosi, e poi comprendendo di non avere più speranza."

Fino alla frase «la radio di Magadan prese a suonare» Grossman racconta una storia banale, per quanto drammatica. È iniziata una pallida primavera, e la vita nel gulag si fa un po’ più leggera. Maša e due altre carcerate vengono mandate a riparare la strada che porta al villaggio. Mentre sbrigano il lavoro, Maša guarda le finestre di uno dei villini di legno che ospitano gli ufficiali, e si ricorda della sua casa sull’Arbat, una delle strade principali di Mosca. Ma questo non la commuove. Il capovolgimento, l’ingresso nella tragedia, non è dato da una memoria dolorosa, dall’involontario confronto tra la sua vita passata e quella presente, ma da un dettaglio piacevole: una radio che si mette a suonare un motivetto allegro. A questo suono, come se si fossero messe d’accordo, Maša e le altre due donne mettono giù le pale e cominciano a piangere, e a farle smettere non servono neppure le minacce delle guardie. «Sembrava – scrive Grossman in una frase di mirabile forza emotiva – che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime».

Che cos’è successo? Che questo frammento di dolcezza, apparso per caso in mezzo alla disumanità del gulag, ha fatto crollare il muro che Maša e le altre si sono costruite attorno per proteggersi dall’orrore di cui ogni giorno sono testimoni. La violenza (il freddo, la fame, le botte, «gli sfrenati litigi delle donne-uomo», cioè delle lesbiche che comandano nel gulag) non era bastata ad abbattere quel muro; ci voleva qualcosa di bello – e quindi di totalmente estraneo al mondo del gulag – perché le condannate ‘prendessero coscienza’, e, intanto si vedessero dall’esterno: abbrutite, luride, puzzolenti. Questa visione dall’esterno porta con sé una chiarezza che prima non c’era, e cancella la speranza: Maša capisce che non rivedrà mai più né suo marito, certamente fucilato, né sua figlia Julja: «né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai». Da allora, Maša cessa di combattere: e un anno dopo esce dal gulag, ma in una bara.

http://www.claudiogiunta.it/2016/04/si-ma-cosa-ce-dentro-6-tutto-scorre-di-vasilij-grossman/


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